Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.

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"Sono io." fece invece uno degli membri della Signoria vestiti in modo più elegante.

Al collo portava una spessa collana d'oro massiccio, segno inequivocabile del suo potere e del suo status di capofamiglia. Aveva il viso scarno, dalla pelle un po' cadente, come se avesse perso molto peso in poco tempo, e le sue labbra erano incrinate in un'espressione tra il contrariato e il malinconico. Era basso, abbastanza tarchiato, molto diverso dal fratello, che invece era longilineo e snello. Portava i capelli abbastanza corti, coperti da una berretta rossa che al Riario parve di seta purissima e velluto.

Ottaviano si ripresentò, benché probabilmente l'avesse già fatto al suo arrivo, quando tutti quei fiorentini lo avevano salutato a raffica uno dopo l'altro.

"So bene chi siete." ribatté Lorenzo, un po' infastidito, mentre gli altri notabili della città occhieggiavano curiosi verso di lui, aspettandosi di vedere qualche gesto che lo tradisse.

Sapeva che tutti volevano capire, da quell'incontro, quanto ci fosse di vero nelle voci che correvano su suo fratello e sulla madre del Riario. Fino a quel momento, benché si dicessero molte cose su di loro, infatti, nessuno aveva mai avuto una vera e propria certezza.

"Vi aspettiamo a cena nel nostro palazzo." disse il Medici, guardando un punto appena sopra la spalla di Ottaviano: "A meno che non vogliate riposare nei vostri alloggi fino alla partenza di domani."

"Domani..?" chiese il ragazzo, sentendosi mancare la terra sotto ai piedi.

Attorno a loro, come mossi da fili invisibili, tanto i soldati, quanto i fiorentini accorsi allo spettacolo, si stavano ritirando in buon ordine, lasciando il Popolano e Ottaviano da soli alla mercé della curiosità dei facoltosi rimasti in attesa.

"Avete un ritardo di giorni." disse Lorenzo, mettendosi finalmente a guardarlo con i suoi occhi tondi e, in quel momento, per nulla espressivi: "Dovete partire al più presto. A Pisa vi attendono."

Il Riario deglutì e, come se avesse appena preso un pugno sullo stomaco, si portò una mano al ventre coperto dalla corazza.

"Verremo volentieri a cena da voi." disse uno degli attendenti al suo posto: "Siete molto gentile."

Il Medici diede un'ultima sprezzante occhiata al figlio della Leonessa di Romagna, trovandolo goffo, impacciato, pallido e del tutto inadatto al compito che gli era stato affidato. Con i suoi capelli lunghi e impomatati che gli cadevano sulle spalle coperte di ferro, e i suoi occhi spauriti, pareva più un ragazzino, che non un uomo.

"Vedete almeno di non fare tardi." concluse il Popolano, facendo un cenno ad alcuni suoi fedeli e lasciando il figlio della Contessa al suo destino.


Ludovico Pico Della Mirandola teneva la testa inclinata di lato, con un'insolenza che ormai poco si addiceva ai suoi ventisei anni. Il suo modo di atteggiarsi stava per far saltare i nervi al Moro, che, più vecchio e, almeno a parole, molto più padrone di sé, stava cercando di fare di tutto per dimostrarsi superiore e sopportare con una certa eleganza quell'insubordinazione.

"Dovevate pensarci prima." disse Pico, allargando le braccia e guardando prima il Duca e poi il suo cancelliere, quasi aspettandosi davvero che Calco ridesse in risposta al suo sorrisetto divertito: "Se si lascia un uomo come Galeazzo Sanseverino al governo..."

"Si è trattato solo di poche settimane!" sbottò lo Sforza senza riuscire più a trattenersi: "Doveva essere la sua occasione di dimostrarmi che meritava ancora la mia fiducia e invece ha gettato tutto alle ortiche!"

Mentre Ludovico era stato a Mantova, infatti, pur con grandi riserve, aveva lasciato al genero – già felicemente risposato, per altro – il ruolo di Governatore ad interim, sperando che quel suo parente rinnegato fosse in grado di riconquistare la sua fiducia dimostrandosi irreprensibile.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now