Capitolo 406: 21 giugno 1498

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"Adesso sono sobria." gli sussurrò, sperando che bastasse a farlo capitolare: "Non mi va bene uno qualsiasi, io voglio te."

La chiara allusione alla minaccia fatta la sera prima dalla Leonessa – ovvero di andarsi a cercare un uomo più disponibile del marito – mise addosso una strana irrequietezza a Giovanni.

Siccome la donna non sembrava intenzionata a desistere, il fiorentino sospirò e, vinto più dal proprio desiderio che dalle parole della moglie, preferì fare quello che lei voleva, cercando, comunque, di tenerla sempre presenta a se stessa e a loro due.

"Però stasera – le disse, cercandone le iridi accese che rilucevano alle fiammelle delle candele, mentre Caterina, felice per quella vittoria, gli passava trionfale una mano sul petto – ci siamo solo noi due. Giacomo lascialo fuori da questa stanza. Ti prego."

A quella richiesta, tanto accorata quanto visibilmente sofferta, la Contessa chiuse un momento gli occhi e poi, mordendosi un labbro, annuì: "Ci siamo solo noi. Te lo prometto." e fece seguire alla dichiarazione un bacio che al Medici bastò come garanzia di buon proposito.

Tuttavia, mentre, spogliandola, la faceva avvicinare al letto, ribadì ancora una volta, non temendo di eccedere con la chiarezza: "Solo noi due. Sono io, tuo marito."

Caterina non diede mostra di essere infastidita dalla perentorietà con cui, senza volerlo davvero, Giovanni si era espresso.

Giacomo era ovunque, e il Medici se ne struggeva molto più di quanto volesse farle credere. Non appena si usciva da quella stanza, lo spettro del Barone Feo era dappertutto. Giovanni non poteva sperare di vincere. Bastava guardarsi attorno e l'essenza del Governatore Generale, dell'uomo che era stato capace di far perdere la lucidità – e per poco anche lo Stato – alla Contessa era veramente dappertutto. C'era la sua stata, davanti alla rocca. C'era il Paradiso, dalle porte chiuse, ma era comunque lì a ricordare al Popolano un passato che conosceva solo per sentito dire. E poi c'era Bernardino.

Così l'uomo, che non voleva che Giacomo si mettesse di nuovo tra loro, almeno quando erano nel loro nido, fece del suo meglio, malgrado tutto, per aiutare la sua amata Caterina a dimenticare il suo grande amore e pensare solo ed esclusivamente a lui almeno per qualche ora.


Antonio Maria Ordelaffi guardò il suo informatore con espressione grave. Venezia gli stava mettendo fretta, ma lui voleva fare le cose al meglio.

Dopo che il suo appoggio a Forlì era stato scoperto quasi all'istante e messo a morte, l'esule temeva che la Tigre e suo figlio fossero al corrente di ogni sua mossa. Non si sarebbe, dunque, azzardato a raggiungere Ravenna fino a che non fosse stato certo che Ottaviano Riario aveva lasciato Forlì.

Anche se tutti dicevano che era solo sua madre, a reggere le sorti dello Stato, all'Ordelaffi pareva chiaro che non fosse così.

Aveva conosciuto la Sforza e se quella donna si fidava a lasciare andare il primogenito in Toscana con al seguito buona parte dell'esercito, significava che ormai anche l'erede di Girolamo aveva un certo spessore politico.

Almeno, con lui lontano, avrebbe dovuto guardarsi le spalle da una vipera sola.

"Domani..." disse tra sé l'uomo, valutando come l'indomani sarebbe già stato il 21 giugno: "Se l'è presa comoda."

Il suo informatore non commentò e attese di essere congedato. Quando decise di non aver altro da chiedergli, il suo padrone lo fece allontanare con un cenno della mano e si recò dal suo luogotenente.

L'appannaggio che Venezia gli aveva concesso era ridicolo. Poteva contare – gli avevano assicurato alla corte del Doge – sull'appoggio pressoché incondizionato di Pandolfo Malatesta, ma nessuno si era preso il disturbo di dirgli per tempo che il signore di Rimini era ancora al nord, a trafficare chissà cosa con Guidobaldo da Montefeltro.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora