Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai

Start from the beginning
                                    

"Avremmo dovuto incontrarci almeno venticinque anni fa." aveva concluso il fiorentino, quando la donna aveva fatto una breve pausa.

"Venticinque anni fa..." aveva sussurrato lei, quasi sorridendo: "Allora tu avresti avuto quattro anni e io otto..."

"Almeno, se ti avessero promessa a me, non avresti dovuto..." aveva cominciato a dire l'uomo, ma Caterina l'aveva fermato subito, alzando la mano.

"Siccome non è andata così, è inutile parlarne." aveva concluso, per poi prendere un respiro profondo e ricominciare il suo racconto.

E così il Popolano non aveva più detto nulla di simile, anche se pensava realmente che sarebbe stato diverso, se per qualche capriccio del fato, fosse stato lui, il promesso sposo di Caterina, fin dall'inizio.

Sentiva che erano stati destinati a stare insieme, dunque, anche se con un matrimonio combinato, sarebbero stati felici. Però, ormai quel che era stato era stato, aveva ragione lei.

Ripensare a tutto quello che si erano detti e alle lacrime versate quella notte – perché la Tigre, tra le sue braccia, sembrava anche capace di sciogliersi parlando dei figli, perfino, anzi, soprattutto di Ottaviano, quando invece il resto del mondo non lo avrebbe mai creduto possibile – non aveva permesso al fiorentino di prendere sonno.

Così restava in silenzio, una mano sul cuore, come ad accertarsi che continuasse a battere lento e regolare, e un braccio attorno alle spalle della Leonessa di Romagna, scossa ogni tanto da un fremito, quando la sua mente le riproponeva nel sonno immagini che da sveglia cercava con tutta se stessa di allontanare.


 Giovanni Sforza sentiva ancora il freddo dell'alba nelle ossa, ma la strada tra la sua stanza e quella della moglie Lucrecia era stata sufficiente a farlo sudare abbastanza da fargli incollare il camicione alla schiena.

Bussò un paio di volte, fino a che la donna non gli disse di entrare pure. Era già sveglia anche lei, probabilmente perché la sua preparazione per il Venerdì Santo richiedeva molte ore. In fondo, tutti gli occhi di Roma sarebbero stati puntati su di lei, in quei giorni di Messe solenni e processioni.

Lucrecia lesse qualcosa di strano negli occhi tondi del marito e così congedò le due dame di compagnia e le altre serve che si stavano occupando di lei chiedendo loro di lasciarla sola con il signore di Pesaro.

"Andrò a confessarmi a San Crisogono." disse Giovanni, tenendo le mani dietro la schiena e fissando un punto della parete.

Come sempre, quando era solo con Lucrecia, sentiva su di sé i suoi occhi penetranti e intelligenti, così simili a quelli di papa Alessandro VI, anche se meno crudeli. Era una sensazione tanto strana che come sempre, malgrado lui fosse più vecchio di lei, si sentiva in agitazione come uno scolaro davanti a un precettore inflessibile.

"Buona idea." sussurrò Lucrecia, riprendendo a pettinarsi i lunghi capelli color oro.

"O a Sant'Onofrio. Non ho ancora deciso." soggiunse Giovanni, sia per non dare punti fermi a una Borja, sia per non starsene zitto.

"Sono entrambe chiese molto concilianti, per una confessione." commentò la giovane, mettendo in pratica l'arte oratoria dei salotti dove, per non annoiarsi troppo, si imparava a ricamare su dettagli e frasi di circostanza.

"Poi farò un giro di penitenza delle Sette Chiese..." proseguì lo Sforza, sentendo una goccia di sudore scendergli lungo la tempia e temendo che la moglie la notasse e si impensierisse, visto che lei era sempre pronta a cogliere da lui ogni minimo segnale.

Invece Lucrecia non lo guardò nemmeno. Non era solita fare a quel modo, a maggior ragione quando erano soli, eppure quel venerdì sembrava proprio intenzionata a fare come se il marito non fosse presente.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now