Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata

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I suoi capelli, a zazzera, avevano qualche filo grigio e i suoi occhi pesanti erano cerchiati da spesse occhiaie. Le guance, dalla pelle un po' cadente, sembravano incavate, malgrado la sua stazza tutt'altro che patita, e le sue labbra erano incurvate verso il basso, con una decisione che lasciava intendere che non avrebbero sorriso mai più.

"Mi è stato detto, sì." confermò Isabella, la voce roca e la gola secca.

"Io non sono mai stato del tutto d'accordo con l'idea di incarcerarvi." disse il Duca, sedendosi sulla poltroncina che stava davanti a quella della donna: "Ma Beatrice voleva uccidervi, dunque ho scelto una via di mezzo."

"Avevate già ucciso mio marito. Perché non uccidere anche me?" fece l'Aragona, sprezzante, ancora troppo adirata con il Moro per riuscire a trattenersi, malgrado la paura costante per la sorte dei figli.

"Siete davvero certa che abbia ucciso io mio nipote?" chiese Ludovico, sollevando un sopracciglio.

L'uomo portava abiti scuri, a lutto, molto rovinati. Sembravano vestiti ripescati da una cassapanca caduta in disuso da anni o rubati a un mendicante che chiedeva l'elemosina per strada.

Tuttavia, mentre gonfiava il petto per contrastare l'accusa della nipote acquisita, il Duca aveva ripreso parte della sua autorevolezza, benché stesse indossando degli stracci e avesse il volto di un penitente.

"Rivoglio mio figlio." fece Isabella, lasciando perdere la domanda del Moro e provando a strappare qualche concessione.

"Vostro figlio resterà a Pavia." tagliò corto il Duca: "Dovreste accontentarvi di avere qui le vostre figlie e di aver avuto salva la vita."

"La mia bambina più piccola è morta per colpa vostra – fece notare Isabella, che si stava rendendo conto solo in quel momento di quanto la rabbia che aveva covato per anni dentro di sé fosse davvero più forte anche della paura – dunque esigo che mi lasciate portare a Milano Francesco. Non vi permetterò di uccidermi un altro figlio."

Ludovico si alzò, scuotendo il capo: "State pur certa che se avessi voluto uccidere vostro figlio, l'avrei già fatto. Voi però adesso chiedete troppo e troppo in fretta. Vedrò come vi comporterete nelle prossime settimane. Se saprete darmi delle buone ragioni per farlo, potrei rivalutare la posizione di vostro figlio."

"Credete davvero che io cercherei di metterlo al vostro posto?!" sbottò l'Aragona, alzandosi e inseguendo il Duca, che aveva quasi raggiunto la porta.

I passi ancora malfermi della vedova di Gian Galeazzo furono sufficienti per indurre il Moro a fissarla con pietà, tuttavia, quando parlò lo fece con molta durezza: "E perché non dovreste? Avete scatenato una guerra, per sollevarmi dal mio titolo. Non crediate che mi sia dimenticato delle lettere con cui avete cercato di scatenare Napoli contro di me. Chi mi dice che non ci riprovereste? Perché dovrei smettere di temervi?"

"Perché il potere mi ha fatto troppo male. Sia a me, sia ai miei figli." rispose Isabella, con una franchezza che suonò dolorosa alle orecchie dello Sforza: "Voglio solo permettere a loro, a tutti e tre loro, di vivere. Ma il potere... Quello non lo voglio per nessuno dei miei figli. Il potere uccide e basta, in tutti i sensi."

L'uomo la fissò un momento e poi decretò: "Vi terrò d'occhio. Dimostratemi che siete davvero solo interessata a sopravvivere e non al potere e allora rivaluterò le mie decisioni."


 Tommaso Dall'Aste allargò le braccia e poi guardò ancora una volta la Contessa di sottecchi: "Sono il primo a non crederci, posso giurarvelo, ma io dico che nella vostra posizione sarebbe buona cosa accettare."

La donna picchiettava indice e medio sulla scrivania con fare teso. Aveva deciso di incontrare Dell'Aste alla rocca e non a palazzo solo perché non voleva orecchie indiscrete all'ascolto e dunque aveva pensato che starsene a Ravaldino sarebbe stato molto più sicuro.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now