Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est

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"Mi è venuta un'idea..." fece a quel punto Bartolomeo, mentre la moglie masticava a bocca aperta, con gli occhi scuri fissi sul camino acceso.

Il giorno dopo, tra una spolverata di neve e l'altra, la porta principale del castello di Bracciano venne spalancata e, sotto lo sguardo attonito dell'avanguardia di Juan Borja, ne uscì un asino.

Con un passo ciondolante e lento, mentre il portone gli si chiudeva alle spalle, l'animale avanzò, arrivando fino al campo dei papalini, come se sapesse benissimo di dover andare là.

Quando raggiunse il cuore dell'accampamento, alcuni soldati lo presero e lo portarono a Juan, che era nel suo padiglione, coperto da tre mantelli e con le mani allungate sul focolare improvvisato che aveva acceso per scaldarsi.

Al collo dell'asino era stato appeso un cartello che recitava: 'lasciatemi passare perché sono un ambasciatore e reco un messaggio per il Duca di Gandia'.

Juan, avvampando per l'affronto, vide una lettera che penzolava attaccata alla coda della bestia. Nel tragitto, il foglio si era macchiato di fango e anche di letame.

"Stupido asino..." borbottò il figlio del papa, schifato, prendendo con la punta di due dita il messaggio, cercando di non sporcarsi.

Quando spiegò il foglio, però, si trovò davanti una tal serie di ingiurie e minacce condite dai più turpi insulti rivolti alla sua persona e a entrambi i suoi genitori che non si preoccupò più di insozzarsi le mani.

Strappando la missiva in mille pezzetti, Juan gridò: "Brutto cane d'un mercenario! Possa tu bruciare all'inferno con quella pazza cheti trovi per moglie! Preparate la mia armatura! Preparate il mio cavallo! Attacchiamo subito!"


Caterina aveva appena accantonato la lettera di suo fratello Piero che l'avvisava che Achille Tiberti era arrivato a Forlimpopoli, dove aveva incontrato il suo convalescente fratello Palmerio.

Quella notizia da un lato aveva rincuorato la Contessa, che era stata subito certa della buona riuscita della riconquista e del consolidamento di Civitella, ma dall'altro l'aveva indisposta parecchio.

Prima di tutto, Tiberti aveva fatto ritornare l'esercito a Forlì alla spicciolata, in modo caotico e senza farvi da guida, e quello non era il giusto modo di trattare una truppa presa in prestito.

Secondariamente, la Leonessa si era aspettata che il Capitano passasse prima da Forlì e solo dopo si recasse dal fratello a Forlimpopoli.

Così, già sulle sue per l'arrabbiatura arrivata di primo mattino, quando la Tigre si vide arrivare nella sala delle questue l'oratore milanese, sentì prepotentemente il desiderio di mandare tutti al diavolo e di andare a caccia da sola.

Però sapeva che non poteva farlo, così, giocherellando nervosamente con la collana che era stata di sua madre Bona e che finalmente poteva di nuovo indossare, salutò il milanese con un sorriso abbastanza convincente e lo pregò di dire ciò che doveva.

L'uomo, che da quando era a Forlì non aveva fatto altro che vedersi respingere pressoché ogni richiesta di colloquio ufficiale, aveva deciso di presentarsi come un questuante comune, in modo da non poter più essere rimbalzato.

Trovò comunque quanto meno irrispettoso il fatto che né la Contessa, né il suo cancelliere, né tanto meno i due Consiglieri che l'affiancavano si fossero alzati in segno di rispetto o avessero almeno accennato un mezzo inchino con il capo.

Tuttavia ricacciò indietro la sua irritazione e con sicumera disse: "Il mio signore, il Duca Ludovico Sforza, chiede di avere maggiori informazioni circa la vostra intenzione di sposare Giovanni dei Medici di Firenze e vi ricorda che ogni decisione in tal senso dovrebbe prima passare dal suo saggio vaglio, per evitare altri... incidenti."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now