Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent

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"Come vi permettete?!" sbottò a quel punto Luffo Numai,alzandosi in piedi e guardando in cagnesco quello che aveva appena parlato.

"Un mastio non serve a nulla! Bloccate i lavori! Abbiamo già le porte, i rivellini, la rocca, il fossato..!" insistette un altro dei Consiglieri.

A quel punto, finalmente, la Contessa reagì. Infilò una dopo l'altra una serie di pesanti bestemmie che ebbero la capacità di zittire tutti.

Giovanni fissava Caterina a bocca aperta. Aveva sentito dire che la Tigre sapeva essere sboccata, all'occorrenza, ma sentirla con le proprie orecchie mentre sciorinava a quel modo ogni genere d'imprecazione era tutta un'altra cosa.

Il fiorentino, però, non capì subito la reazione dei Consiglieri.Tra loro si era sparsa un'aura di terrore puro, che secondo lui non era del tutto spiegata da qualche frase blasfema.

Quello che l'ambasciatore ignorava era che, nell'immaginario comune dei forlivesi, quel genere di esternazioni da parte della Contessa era sempre e solo foriero di vendette, crudeltà, morte e repressioni.

Ogni volta che quella donna si lasciava andare a quel modo al turpiloquio, era molto probabile che qualcuno fosse in procinto di perdere la testa, nel senso meno metaforico del termine.

Ecco perché tutti rimasero muti, consci all'improvviso, e con un po' di ritardo, di aver passato il segno con le loro rimostranze.

La Leonessa avrebbe volentieri spedito i più insolenti tra i Consiglieri in cella, minimo per un paio di notti, ma non voleva cedere alla propria ira tanto facilmente.

Per di più, proprio mentre ricominciava a parlare, scorse accanto al muro Giovanni e, un po' per vergogna, un po' perché la strana influenza di quell'uomo si faceva sentire anche a quella distanza, i suoi toni si smorzarono nel dire solo: "Ma siete diventati tutti pazzi?"

Le sue parole riecheggiarono nella sala consigliare, immerse nel silenzio teso di chi si aspetta una punizione esemplare.

"Venezia, la Lega, Roma, Napoli, la Francia, perfino Milano."elencò lentamente Caterina, restando seduta, le mani aperte sul tavolo e una linea severa sulla fronte: "Tutte loro voglio farsi guerra e la nostra terra farebbe a ciascuna di esse molto comodo. Sono tutte un pericolo, per noi!" proseguì, alzando pian piano i toni e fissando a turno tutti i membri del Consiglio: "Dite che la guerra è lontana, ma non è così! Come fate a essere tanto ciechi? L'Italia è un calderone che ribolle e manca poco, prima che questa o quella potenza facciano esplodere tutto! Arriveranno qui e se non sapremo difenderci, faranno povere, di noi! Arriveranno con cannoni moderni, artiglieria pesante, truppe scelte, e stavolta, statene ben certi, non cercheranno mediazioni!"

L'oratore milanese, che stava a poca distanza dal Medici che, pur avendolo visto, non l'aveva riconosciuto fino a quel momento, si schiarì la voce e fece un passo avanti, nel silenzio generale.

Nessun altro aveva osato interrompere la Tigre, ma l'uomo del Moro non pareva impensierito quanto gli altri dalla furia della Contessa: "Avete citato molti Stati che potrebbero distruggervi, far di voi polvere, come avete voi stessa detto, in modo molto evocativo..."fece l'uomo, con le labbra tirate in un sorriso falso e leggermente ironico: "Ma non vi ho sentita citare Firenze."

Luffo Numai, che quel giorno si sentiva investito del prezioso incarico di difendere la sua signora e, al contempo, di cercare di arginare tutti gli interventi che avrebbero potuto farle saltare i nervi, si protese in avanti e gridò: "Come vi permettete?! Voi non potete parlare in questa sede! Voi siete qui solo come..."

Ma Caterina lo aveva zittito sollevando imperiosamente una mano: "Con Firenze – disse, a voce bassa e minacciosa – per il momento siamo in buoni rapporti. Come con Milano, dopotutto, o sbaglio?"

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now