Capitolo 311: Panem et circenses

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La Tigre fu sul punto di negare il permesso a Tiberti, soprattutto temendo di perdere un comandante della sua capacità in uno scontro inutile, com'era successo con il Bergamino ai suoi tempi.

Veder partire un uomo così utile e poi saperlo morto per mano di chissà chi era stato un colpo durissimo e per nessun motivo Caterina voleva ripetere gli errori del passato.

Tuttavia, quando notò gli occhi un po' lucidi e il pomo d'Adamo che correva svelto su e giù nella gola dell'uomo, ripensò a quello che lei stessa aveva fatto, quando aveva saputo che sua sorella Bianca stava male e rischiava la vita per partorire.

Ricordò a come avesse lasciato perdere ogni prudenza e fosse partita in piena notte, cavalcando a pelo, e attraversando il bosco con il rischio di perdersi o essere aggradita da qualcuno.

Ricordò la sensazione di voler correre in soccorso di qualcuno. Non le era capitato solo con Bianca, ma anche con altri membri della sua famiglia e, quando non aveva potuto farlo, si era sentita inutile, meschina e vuota.

Ricordò il senso di impotenza assoluta e la rabbia che ne era seguita quando era arrivata a Mordano troppo tardi per fare qualcosa. Anche solo morire assieme alle donne che erano state torturate e uccise nella chiesa del loro piccolo paese.

Stringendo con forza una mano attorno alla piccola cintura di daino che le ornava il liscio abito blu, Caterina cedette: "E va bene. Andate pure da vostro fratello, se è questo che volete. Ma tornate vivo. Guai a voi se vi fate ammazzare, chiaro?"

Achille si inchinò fino a toccare terra con il ginocchio e ringraziò la Contessa: "Ve lo giuro, mia signora, tornerò vivo."

"Adesso andate. Partite pure subito, se è necessario. Non perdete tempo, sapete quanto è importante in questi casi." disse Caterina, permettendogli di rialzarsi con un gesto ampio del braccio: "Non temete per Forlì. Il Capitano Mongardini potrà supplire senza problemi la vostra assenza per qualche tempo. Mi spiace solo che non resterete per il matrimonio."

Tiberti fece un mezzo sorriso e, appena prima di correre via, promise: "Ci sarò per il prossimo. Io dubito che le nozze tra messe Ridolfi e madonna Feo saranno le ultime che celebreremo in questa rocca!"


 Ercole Este scuoteva il capo mentre staccava coi denti un altro boccone di formaggio dal pezzo che teneva in mano.

Alfonso lo guardava di rado, rosso in volto e imbronciato. Aveva già vent'anni, era stato in guerra, aveva dimostrato di valere qualcosa, eppure suo padre lo trattava come un ragazzino.

Da quando il suo mal francese s'era stabilizzato, riacutizzandosi di rado, facendo capire al signore di Ferrara che il suo erede, dopotutto, non sarebbe morto a breve per colpa di quella malattia, Alfonso si era visto denigrare e sottovalutare in ogni modo possibile.

Anche quel giorno, a tavola, con mezza dozzina di servi, tra camerieri e guardie, che sentivano ogni parola, Ercole non aveva perso occasione di dileggiare il figlio.

"Se andrà avanti così ancora a lungo – disse a un certo punto il Duca, finendo il formaggio – si dovrà pensare a qualcosa. Dico davvero, eh? Se non fosse che tua sorella Beatrice è sposata col Moro, io questa maledetta Sforza l'avrei già fatta mangiare dai cani."

Alfonso appoggiò il coltello sul tavolo, sentendo lo stomaco rivoltarsi e cominciò a fissare la tovaglia ricamata.

Sentiva le guance pizzicare. Suo padre l'aveva fatto rasare ancora una volta troppo a fondo. Lui avrebbe voluto tenersi la barba a mezza misura, come aveva fatto quando era stato in guerra al seguito della Lega, e invece doveva restarsene imberbe e zitto come un bambino.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now