Capitolo 295: Il papa ha dieci anime

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Di Ottaviano nessuno chiedeva notizie e la stessa Caterina non lo voleva neppure sentir nominare.

Le bastava sapere che era ancora vivo e che le sue disposizioni in merito alla sua carcerazione venivano seguite alla lettera.

Una volta, mentre erano a tavola, Lucrezia aveva chiesto a sua figlia se non avesse paura che Ottaviano potesse fare qualche sciocchezza, soverchiato dal peso dell'isolamento.

Caterina aveva ribattuto con durezza: "Lui è come suo padre. Pur di non togliersi la vita, accetterebbe anche di vivere come mozzo in una nave di carcerati." e così aveva freddato qualsiasi altra rimostranza o dubbio della nonna del Conte carcerato.

Per il momento la Contessa non aveva intenzione di ritirare la condanna nei confronti del primogenito, né di inasprirla. Le bastava pensare che suo figlio era costretto a rimanere da solo con se stesso, a ragionare su quello che aveva fatto. Non avere altra compagnia se non il senso di colpa e il terrore di non rivedere mai più l'esterno della camera in cui era sembravano per il momento condanne sufficienti.

Malgrado seguisse la sua tabella di marcia con una precisione notevole, però, la Tigre era ben lungi dal sentirsi rasserenata.

La sua marziale attenzione nel seguire gli impegni della giornata svaniva come nebbia quando scendeva la sera.

In quei pochi giorni, un paio di volte si era lasciata di nuovo tentare dall'oblio dell'oppio, qualche volta aveva preferito limitarsi al vino, e qualche altra aveva di nuovo cercato la compagnia di uomo.

A differenza delle volte precedenti, però, sia quando aveva anestetizzato le sue emozioni, sia quando aveva permesso a Bacco di trascinarla nella sonnolenza degli ubriachi e sia quando si era fatta stringere da braccia che non conosceva, alla fine la Leonessa di Romagna si era ritrovata sempre e inevitabilmente a pensare a Giovanni.

Dopo poco più di una settimana di caldo intenso e sole ruggente, in città cominciarono a moltiplicarsi i casi di febbre, accumunati da sintomi vaghi e scarsamente riconoscibili.

La scarsità di cibi freschi e la difficoltà nel reperire acqua pulita, portò in fretta e senza che nemmeno la Tigre, presa dalle sue tribolazioni personali, se ne avvedesse all'inizio di una silenziosa e pestilenziale epidemia.


 Giovanni si chiuse la porta alle spalle, felice che almeno per quel giorno i suoi impegni si potessero dire conclusi.

Era stanco morto, aveva la testa che girava, sentiva un groviglio di desideri e remore che si combattevano nel centro del suo petto e avvertiva uno strano peso alle gambe che non prometteva nulla di buono.

Era a Rimini e il giorno appresso sarebbe partito alla volta di Cesena, dove l'attendeva un governo temporaneo e caotico e una città in preda a una guerriglia di successione.

A voler essere pignoli, pensava il fiorentino, aveva poco senso mettersi a discutere coi rappresentanti di quello Stato in merito ad alleanze e accordi, visto che, probabilmente, non sarebbero rimasti in carica se non pochi mesi.

Gli ordini però erano ordini e non si dovevano discutere. Lorenzo, nella sua ultima lettera a stampo personale, gli aveva fatto chiaramente capire che la situazione di Firenze non era rosea e che Venezia lo sapeva e si sarebbe mossa di conseguenza. Dunque era necessario buttare le basi giuste, se si voleva restare in piedi.

Il Medici si lasciò cadere con pesantezza sul materasso magnificamente imbottito che Pandolfo Malatesta gli aveva riservato. Il signore di Rimini aveva molti difetti, ma sapeva come accogliere e intrattenere gli ospiti importanti.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now