Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini

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Non erano lontani da Montecalvo Irpino, ma era proprio da lì che l'avanguardia era tornata per dire al Montpensier che le riserve d'acqua della zona scarseggiavano.

Di quel passo, pensò Virginio, sarebbe pure scoppiata qualche epidemia. Proprio l'ideale, nella loro già disastrata condizione.

Socchiuse le palpebre, facendosi scudo contro il sole ormai estivo di quegli ultimi giorni di maggio e poi, dopo aver vagliato a grandi linee l'esercito che li seguiva e i volti smunti e affaticati dei soldati, sbuffò.

Montò di nuovo in sella, affranto al pensiero della lunga cavalcata che l'aspettava, e ordinò: "Che si torni verso le Puglie! Lì ci rifocilleremo e poi scenderemo e daremo il sacco ad Atella!"


 Giovanni Sforza fissava assorto la punta dei propri stivali, tenendo le braccia strette contro il petto e le sopracciglia alzate.

Non gli piaceva stare lì. Si sentiva troppo vicino al pericolo. A che era servito far l'impossibile per starsene lontano dai campi di battaglia, per poi trovarsi in un padiglione, assieme al resto dell'esercito, in attesa degli eventi?

Dopo essersi ricollegato con Francesco Gonzaga, aveva cercato invano di staccarsi, andando a Benevento, ma non era riuscito a forzare l'ingresso in città e aveva desistito subito, ritirandosi a Morcone.

Da lì era arrivato a Fragneto Monforte, e aspettava. Non sapeva nemmeno lui cosa.

Che il papa gli scrivesse ancora per convincerlo a tornare a Roma?

Rabbrividiva alla sola idea. Dopo quello che aveva visto e sentito, non voleva mai più rimettere piede nella corte di Alessandro VI.

Aspettare, allora, che iniziasse una battaglia e che qualcuno gli tagliasse la gola o gli piantasse una lancia nel petto? E per cosa? Per una guerra che nemmeno capiva?

Il signore di Pesaro era ancora immerso nei suoi pensieri quando la tendina che fungeva da ingresso al suo padiglione si aprì, lasciando entrare il crudele profumo della notte, che in quel finale di maggio portava in sé gli aromi della vita e della morte, tutti mescolati assieme.

Giovanni sollevò lo sguardo e vide che a fargli visita era niente meno che Francesco Gonzaga.

"State, state..." disse piano l'eroe di Fornovo, facendogli segno con la mano di non alzarsi.

Lo Sforza allora invitò il mantovano a prendere posto sullo sgabello che stava davanti al suo e poi gli offrì un po' di vino.

Il Gonzaga rifiutò e partì subito a dire le cose che più gli premevano: "A breve stiamo pensando di attaccar battaglia contro i francesi. Le nostre spie dicono che sono diretti ad Atella, ma io vorrei pungerli anche prima, provocandoli in campo aperto. Sarete dei nostri?"

Gli occhi spersi di Giovanni cercarono quelli fieri di Francesco e poi il signore di Pesaro seppe solo dire: "Io... Non... Se volete vi posso lasciare i miei uomini."

Il Marchese di Mantova lo fissò per un lunghissimo istante, la fronte aggrottata, poi si batté le mani sui fianchi, e, con uno sbuffo molto sonoro, si alzò dallo sgabello, facendo mostra di voler lasciare di già il padiglione.

Lo Sforza non fece nulla per fermarlo, così, quando ormai era quasi alla tendina d'ingresso, il Marchese si lasciò scappare: "Proprio non vi capisco, Sforza. Avete lasciato a Roma una moglie bellissima per venire qui e adesso che ci siete, non volete nemmeno prendere in mano una spada."

"Voi conoscete i Borja?" sussurrò piano Giovanni, domandandosi se mai nel Gonzaga potesse celarsi un interlocutore comprensivo.

Francesco si voltò, tornando verso lo sgabello e risiedendosi: "Chi non li conosce?" domandò, retorico.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now