Capitolo 287: Potius sero quam nunquam

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Così chiamò i suoi sottufficiali e annunciò: "Fate preparare i soldati. Ci spostiamo verso la fascia pedemontana."


 Giovanni Medici cominciava a prendere confidenza con la vita alla rocca. Era ormai in città da un mesetto e pian piano iniziava a farsi delle abitudini.

Presto suo fratello gli avrebbe scritto per comunicargli le commissioni da farsi nelle terre vicine, come responsabile degli affari della repubblica, ma per il momento il Popolano si sentiva libero di non far altro, se non ambientarsi.

Ambientarsi e tenere d'occhio la Leonessa di Romagna. Era parte del suo compito, farsi un quadro preciso della donna che governava su quelle terre, ma Giovanni doveva ammettere con sé stesso, in uno slancio di onestà, che il suo interesse spesso sfociava in campi tutt'altro che professionali.

Aveva notato che la Contessa Sforza usciva molto spesso a caccia, da sola. Presiedeva ogni riunione di Consiglio e non c'era quasi pomeriggio che non passasse dal Quartiere Militare e si addestrasse nel cortile della rocca assieme ai suoi armigeri. Per il resto faceva la vita spartana di un soldato e solo di rado la si vedeva interagire coi figli. Con sei dei sette figli, per lo meno.

Il fiorentino aveva sentito dire che il legittimo Conte, il primogenito, era rinchiuso in una stanza presidiata da uomini armati. Non si era mai avventurato in quell'ala della rocca, ma non aveva motivo per credere che non fosse vero.

Un'altra caratteristica aveva notato, della Contessa; ovvero che così come repentinamente prendeva decisioni, così a volte non ottemperava agli impegni presi, purché si trattasse di questioni di piccola importanza.

La prima sera passata da Giovanni alla rocca, per esempio, malgrado fosse stata lei stessa a dire che avrebbero cenato assieme, la Contessa non si era presentata a tavola e così aveva fatto per parecchi giorni.

Il pranzo a Ravaldino ricordava la distribuzione di un rancio militare per graduati, con una serie di pietanze lasciate a centrotavola, lasciando libero qualunque commensale di servirsi quanto e quando voleva, e dal salone entravano e uscivano di continuo membri della famiglia Riario, il castellano, gli armigeri e tutti quelli che in qualche misura avevano a che fare con la rocca. Ognuno si presentava all'ora che risultava più comoda a seconda delle necessità e per parecchio tempo Giovanni non riuscì a intercettare la signora di Forlì nemmeno una volta.

Quando era stato dal barbiere, il giorno in cui era arrivato, si era accorto che la sua presenza aveva incuriosito molti degli altri clienti.

Malgrado ciò, le chiacchiere che gli avventori della barberia si scambiavano, tra un'occhiata rivolta a lui e una interrogativa riservata al Bernardi, avevano quasi esclusivamente la Tigre come soggetto principale.

Si parlava di lei e delle tasse che aveva fatto abbassare, delle sue uscite per andare a caccia agli orari più strani e delle prede che immancabilmente portava alle cucine della sua rocca, dei lavori che stava facendo nel parco di Ravaldino – che si stava lentamente trasformando in un capolavoro con orti, piante da frutto, alberi da legname, una parte di bosco per la piccola caccia, e perfino una casetta dove riposare in caso di bisogno – della demolizione appena iniziata del palazzo dei Riario e dei reclutamenti continui di nuovi soldati, attirati dalle paghe generose e dalla possibilità eventuale di fare carriera a quel modo, dato che ormai gran parte del governo era passato dalle mani della vecchia nobiltà, andata distrutta alla morte di Giacomo Feo, a quelle dell'esercito. E queste erano tutte cose viste dai forlivesi con occhio abbastanza positivo.

Allo stesso modo, però, parlavano anche di argomenti molto diversi. Ricordavano della fine fatta dalla cameriera personale della Tigre – 'impiccata come un bestia' era uno degli epiteti più usati – e si interrogavano su quanti prigionieri fossero ancora vivi nelle celle di Ravaldino. Si domandavano quanti dei condannati fossero stati uccisi dalla Contessa di mano propria, quanti fossero morti semplicemente di stenti e quanti invece fossero stati affidati agli aguzzini, senza riuscire a sopravvivere agli interrogatori. Qualcuno si azzardava a fare il nome del Conte Ottaviano, ma subito il discorso si spegneva in un'aura di incertezza e velata paura. Si sfidavano a indovinare quanti amanti fossero già passati dal letto della Contessa dall'inizio dell'anno e con motti scurrili e camerateschi si auguravano a turno di essere il prossimo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now