Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.

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Benché si trattasse del figlio della sua defunta sorella Clarice, Virginio non provava per lui alcun trasporto, alcun affetto, men che meno rispetto o stima. Era sempre stato uno sconosciuto per lui e la sua manifesta incapacità di certo non gli avevano fatto guadagnare punti agli occhi dello zio.

Però, erano tempi di magra, quelli. La partenza dei francesi aveva lasciato nelle signorie italiane il desiderio di pace e per un uomo come Virginio – che aveva di recente rifiutato di partecipare all'assedio di Novara, senza per altro pentirsene – la pace equivaleva più o meno alla fame.

Il Fatuo rivoleva Firenze e aveva chiesto aiuto proprio a Virginio, in riguardo al legame non solo con lui, ma anche con Paolo Orsini, che non aveva mai abbandonato l'esiliato fiorentino.

'Bisogna agire adesso che Savonarola è messo in discussione – aveva scritto proprio Paolo, per convincere Virginio – e che i Popolani non sono ancora abbastanza forti. Restaurare Piero sarà possibile, se agiremo in modo accorto e ben ponderato.'

Paolo, secondo Virginio, aveva agito da stupido. A fine agosto, dopo la lunga assenza, era corso a Firenze, protetto da un salvacondotto, a lamentarsi delle perdite che aveva subito difendendo il Fatuo al Mugello e in tutta risposta i membri della Signoria lo avevano quasi minacciato di arrestarlo, malgrado il documento che gli garantiva la salvezza.

Così, in uno slancio di rabbioso orgoglio, Paolo era tornato da Piero e aveva deciso di dedicarsi anima e corpo a quella difficile impresa.

Il primo passo sarebbe stato assediare Gualdo Cattaneo, ma Virginio tergiversava ancora. Non gli piacevano i maneggi veneziani in Romagna né l'apparente immobilismo del papa. C'era qualcosa di strano nell'aria e, malgrado i segni smentissero questa ipotesi, almeno per il momento, l'Orsini non era convinto che i francesi avrebbero lasciato perdere l'Italia tanto facilmente. Se n'erano andati, ma non per questo bisognava credere che non sarebbero tornati.

Si accomodò sullo sgabello da campo, facendolo cigolare e diede uno smarrito sguardo alle pareti di stoffa del suo padiglione. Il vento, forte in quei giorni, scuoteva la tela, ma almeno non faceva ancora freddo.

Si sentiva ormai troppo vecchio per quel genere di vita. Avrebbe preferito potersene tornare a Bracciano, con la sua famiglia, e lasciare in mano tutto quanto a sua sorella Bartolomea. Non che lei fosse giovane...

Con un breve gemito di riluttanza, Virginio intinse la punta della penna nell'inchiostro e poi cominciò a scrivere il suo messaggio per la Tigre.

'Vi porgo le mie sentitissime condoglianze per la morte di colui che sapevo essere a voi caro sopra chiunque altro e non so dire parole per alleviare il dolore che tal perdita deve avervi portato, tuttavia, mia cara amica, conoscete il mio animo e mi sapete uomo di presenza di spirito. Questa mia, oltre che essere misero mezzo per mostrarvi la mia partecipazione al vostro dolore, è dovuta a scelte di guerra che potrebbero essere a vostro interesse.'


 Lucrezia Landriani teneva il nodo dello scialle che le drappeggiava le spalle con entrambe le mani, mentre osservava silenziosa l'andirivieni di soldati che marciavano sotto la finestra a cui stava affacciata.

La rocca di Ravaldino era tutta un fermento, ma non era nulla rispetto al resto della città. La madre della Tigre aveva accolto con grande stupore la notizia del reclutamento a tappeto ordinato sa sua figlia, ma quando aveva provato a chiederne conto proprio a Caterina, questa le aveva fatto capire che non erano argomenti adatti a lei.

Lucrezia si era sentita di nuovo come molti anni prima, quando era poco più che una ragazza, quando la sua storia con Galeazzo Maria era ancora piena di vita, ma altrettanto complicata. Lui le diceva sempre frasi come 'non puoi capire' o 'non sono discorsi per le tue orecchie', e lei, ogni volta, fingeva di dargli ragione e non tentava di sondare oltre i suoi pensieri.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Where stories live. Discover now