Se io potessi scrivere tutto...

By RebeccaValverde

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(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Du... More

Capitolo 250: nobis,cum semel occidit brevis lux,nox est perpetua una dormienda
Capitolo251:Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male
Capitolo 252: Per me si va ne la città dolente...
Capitolo 253: ...per me si va ne l'etterno dolore...
Capitolo 254: ...per me si va tra la perduta gente.
Capitolo 255: Giustizia mosse il mio alto fattore...
Capitolo 256: ...fecemi la divina potestate...
Capitolo 257: ...la somma sapienza...
Capitolo 258: ...e 'l primo amore.
Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...
Capitolo 260: ...se non etterne...
Capitolo 261: ...e io etterno duro.
Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
Capitolo 263: Non uccidere.
Capitolo 264: Settanta volte sette.
Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris
Capitolo266:Impossibile non sia cattivo chi un irrimediabile dramma ha abbattuto
Capitolo 267:ma se i tuoi occhi sono cattivi, sarai totalmente nelle tenebre.
Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.
Capitolo 269: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.
Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.
Capitolo 271: Cuius vulturis hoc erit cadaver?
Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.
Capitolo 273: Ma voi siate astuti come i serpenti e puri come le colombe.
Capitolo 274: Io stesso ero divenuto per me un grande enigma
Capitolo 275: Errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat
Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi
Capitolo 277: Relata refero
Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.
Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur
Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.
Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!
Capitolo 282: Obtorto collo
Capitolo 283: Fiducia
Capitolo 284: Superbiam iracundi oderunt, prudentes irrident
Capitolo 285: Anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo
Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze
Capitolo 287: Potius sero quam nunquam
Capitolo 288: Sii pronto nell'ascoltare, lento nel proferire risposta
Capitolo 289: Ducis in consilio posita est virtus militum
Capitolo 290: Chi fugge dalla battaglia può combattere un'altra volta
Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini
Capitolo 292: Tutti torniamo a la grande madre antica
Capitolo 293: Hodie mihi, cras tibi
Capitolo 294: Prendere le misure
Capitolo 295: Il papa ha dieci anime
Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...
Capitolo 297: Flectamur facile, ne frangamur
Capitolo 298: Amore cerca di medicare l'umana natura
Capitolo 299: E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta.
Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.
Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere
Capitolo 303: Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!
Capitolo 304: Simone Ridolfi
Capitolo 305: A caccia
Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico
Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis
Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.
Capitolo 309: Nulli necesse est felicitatem cursu sequi
Capitolo 310: Non semper temeritas est felix
Capitolo 311: Panem et circenses
Capitolo 312: Neminem cito accusaveris, neminem cito laudaveris
Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram
Capitolo 314: Cras ingens iterabimus aequor
Capitolo 315: Dove ci sono troppe mani, usa la chiave
Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent
Capitolo 317: Dove men si sa, più si sospetta
Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset
Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.
Capitolo 320: Ingégnati, se puoi, d'esser palese.
Capitolo 321: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Capitolo 322: Ama chi t'ama, e accostati a chi ti s'appressa
Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est
Capitolo 324: Tu ne cedes malis, sed contra audentior ito
Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia
Capitolo 326: Non tramonti il sole sopra la vostra ira.
Capitolo 327: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido.
Capitolo 328: Sera nimis vita est crastina
Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!
Cap. 330: Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade
Capitolo 331: Necessitas ultimum et maximum telum est
Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille
Capitolo 333: O luce candidiore nota!
Capitolo 334: Il nuovo Governatore
Capitolo 335: Très braves et vaillans capitaines
Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.
Capitolo 337: Martedì Grasso
Capitolo 338: Il Falò delle Vanità
Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni
Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata
Capitolo 342: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore
Capitolo 343: De fumo ad flammam
Capitolo 344: Quis legem det amantibus?
Capitolo 345: Maior lex amor est sibi
Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai
Capitolo 347: È meglio sposarsi che ardere
Capitolo 348: Felix qui quod amat defendere fortiter audet
Capitolo 349: Unde fames homini vetitorum tanta ciborum?
Capitolo 350: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli
Capitolo 352: Porte chiuse
Capitolo 353: Nil sine magno vita labore dedit mortalibus
Capitolo 354: Eripere telum, non dare irato decet.
Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.
Capitolo 356: Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio
Capitolo 357: L'Amor, che m'è guerrero ed enemico...
Capitolo 358: 14 giugno 1497
Capitolo 359: Permitte divis cetera
Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.
Capitolo 361: Ride, si sapis.
Capitolo 362: Sangue
Capitolo 363: Heu, coscientia animi gravi est servitus!
C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...
Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.
Capitolo 366: Amor gignit amorem
Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.
Capitolo 368: Ognuno dovrebbe fare il mestiere che sa
Capitolo 369: Tacitulus Taxim
Capitolo 370: Dica pur chi mal vuol dire, noi faremo e voi direte.
Capitolo 371: Noli me tangere
Capitolo 372: Ipsa sua melior fama
Capitolo 373: Ché voler ciò udire è bassa voglia.
Capitolo 374: Fare del proprio meglio
Capitolo 375: Siamo alle porte co' sassi...
Cap376:Chi non ha ottenuto la fiducia del sovrano, non agisce come suo generale
Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent
Capitolo 378: Absit iniuria verbis
Capitolo 379: Chi è diffamato, è mezzo impiccato
Capitolo 380: Fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est
Capitolo 381: Virgo Intacta
Capitolo 382: Un anno esatto
Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum
Capitolo 384: Ribellione
Capitolo 385: Cursus honorum
Capitolo 386: Fame
Capitolo 387: Notissimum quodque malum maxime tolerabile
Capitolo 388: Roma locuta, causa finita
Capitolo 389: Carpe diem
Capitolo 390: La prova del fuoco
Capitolo 391: Che c'è di più dolce del miele? Che c'è di più forte del leone?
Capitolo 392: Nihil necesse est, undique enim ad inferos tantundem viae est
Capitolo 393: Ci vuole pazienza
Capitolo 394: Doppia caccia
Capitolo 395: Omnes eodem cogimur
Capitolo 396: Il titol di più onore è padre e difensore
Capitolo 397: Io son l'Occasione, a pochi nota...
Capitolo 398: 23 maggio 1498
Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra
Capitolo 400: Dichiarazione di guerra
Capitolo 401: Mi basta bene l'animo de difendermi
Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio
Capitolo 403: Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela
Capitolo 404: La via dello andare all'Inferno era facile...
Capitolo 405: ...poiché si andava allo ingiù e a occhi chiusi.
Capitolo 406: 21 giugno 1498
Capitolo 407: Miser Catulle, desinas ineptire...
Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.
Capitolo 409: Incipe, parve puer...
Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae
Capitolo 411: Fame da lupi
C412:Da mi basia mille,deinde centum,dein mille altera,dein secunda centum...
Capitolo 413: Acqua lontana non spegne il fuoco
Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu
Capitolo 415: Fratelli
Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum
Capitolo 417: Chi dice che gli è cosa dura l'aspettare, dice el vero.
Capitolo 418: Valiceno
Capitolo 419: Stillicidi casus lapidem cavat
C420: Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato...
Capitolo 421: Tu quidem macte virtute diligentiaque esto
Capitolo 422: Deos fortioribus adesse
Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...
Capitolo 425: Hannibal ad portas
Capitolo 426: Arduo essere buono
Capitolo 427: Tramontata è la Luna, tramontate le Pleiadi...
Capitolo 428: È a mezzo la notte...
Capitolo 429: ...trascorre il tempo; io dormo sola.
Capitolo 430: Sit tibi terra levis
Capitolo 431: Contro i tristi tutto il mondo è armato
Capitolo 432: Ordini
Capitolo 433: Et so quello che dico.
Capitolo 434: Nessuno ama l'uomo che porta cattive notizie
Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia
Capitolo 436: Odi et amo
Capitolo 437: Ambasciator non porta pena
Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame
Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis
Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male
Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.
Capitolo 442: Non fuit in solo Roma peracta die.
Capitolo 443: Il respecto, suspecto, et despecto.
Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores
C445: Perché non si dica mai che uno straniero è stato nostro comandante.
Capitolo 446: Campane a martello
C447:Ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere...
Capitolo 448: Non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina.
Capitolo 449: Ottaviano Manfredi

Capitolo 424: Tristis eris si solus eris

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By RebeccaValverde

Buti era caduta dopo due giorni di assedio e bombardamenti di ogni sorta. Con quattordici cannoni e cinquanta falconetti, Paolo Vitelli aveva sfinito i nemici e aveva fatto anche un gran bottino.

A Firenze si viveva un'aria più distesa, come se i prigionieri arrivati dal fronte fossero la prova tangibile della vittoria sempre più vicina e semplice.

Tra i soldati arrivati in catene c'erano sei bombardieri pisani, ai quali vennero tagliate le mani, per essere poi rispediti, con la macabra testimonianza dell'amputazione appesa al collo, a Pisa come monito.

Lorenzo Medici, quel giorno, era di pessimo umore, in netto contrasto con i suoi concittadini che, invece, erano accorsi in piazza per assistere alla condanna a morte degli altri trentatré prigionieri.

In tutte le armerie di Firenze si stavano costruendo spingarde da mandare al fronte e il clima generale di euforia cozzava nettamente con la mestizia dello spettacolo che si stava apparecchiando davanti al palazzo della Signoria.

Il Popolano, che era fiancheggiato da alcuni suoi uomini di fiducia, si era vestito di scuro e se ne stava un po' in disparte.

Osservò le impiccagioni una dopo l'altra, senza mai distogliere lo sguardo e contò precisamente trentatrè condannati, tra i quali c'erano anche dei ragazzini, o meglio, dei bambini.

Quando la folla cominciò a diradarsi, il Medici finalmente abbassò gli occhi tondi e si chiese che razza di Repubblica fosse quella che si vantava di aver catturato dei mocciosi e di averli appesi per il collo.

Tutto quanto andava all'incontrario, per il suo modo di vedere. E, mentre voltava i tacchi per tornarsene a casa, vide Machiavelli entrare quasi di corsa al palazzo della Signoria, uno spesso plico sotto al braccio e il ciuffo di ricci ribelli in piedi in mezzo alla testa.

Che uno del genere fosse Segretario, pensò Lorenzo, scalciando un sasso che aveva davanti a sé, era la prova più schiacciante della direzione scorretta presa da Firenze.

"Meglio andare, adesso..." gli disse uno dei suoi, avvicinandolo: "Se volete fare in tempo a discutere con il notaio per la questione della villa di Castello..."

"Certo, certo..." sussurrò il Medici, iniziando a camminare verso casa.

Sì, il mondo andava al contrario. Suo fratello era in Romagna, stava male e non aveva voluto essere portato a Firenze. E adesso a Lorenzo toccava anche cercare un cavillo legale per mettere al sicuro i beni di Giovanni, in modo che quella sgualdrina della Tigre di Forlì non gli rubasse tutto quanto, dopo averlo ucciso.

Sapeva che Semiramide aveva scritto ad alcuni dottori, pregandoli di andare subito in Romagna da lui, per curarlo. Nessuno di loro, però, aveva accettato un simile viaggio, tanto meno per cercare di curare un male incurabile, e addirittura uno, memore forse della fine fatta dal medico del Magnifico, aveva risposto dicendo che aveva a cuore la pellaccia sua più di quella di un povero gottoso.


Caterina stava leggendo una novella di Boccaccio con voce bassa e lenta, sperando di conciliare il sonno del marito.

Di notte, Giovanni non riusciva quasi mai a riposare e solo di giorno i suoi dolori sembravano dargli un po' di tregua anche se, dopo un paio d'ore in cui dormiva apparentemente tranquillo, si risvegliava sempre di colpo, a volte per gli incubi e a volte per il male.

Le aveva confessato che, da quando era stato in battaglia, gli capitava spesso di rivivere in sogno quei momenti e ancora non riusciva a capire se avesse ucciso o meno dei nemici. La Sforza non aveva capito, almeno all'inizio, quanto questo dubbio pesasse sulla sua anima e aveva commentato dicendo che non era una cosa così importante, l'importante, in quel caso, era aver vinto.

Invece il Medici si tormentava, al pensiero di essersi macchiato di quella che per lui era una colpa gravissima e così la moglie, seppur senza esserne molto capace, aveva in un secondo momento cercato di consolarlo, facendogli notare che, se non avesse ucciso il nemico, il nemico avrebbe ucciso lui e dunque era andata bene a quel modo.

Ludovico era stato portato nella sua camera, in quel momento, per permettere alle balie di sfamarlo e cambiarlo. Altrimenti, in quei giorni, era sempre nella stanza dei genitori e si dimostrava con loro tranquillo come non mai.

Quando, invece, arrivava la nutrice o una delle bambinaie a prenderlo, il piccolo piangeva, si dimenava e agitava in aria i piccoli pugni, dando sfoggio di un carattere tutt'altro che remissivo, al contrario di quanto non facesse con la madre e, ancor di più, col padre.

Così, approfittando del fatto che erano rimasti soli e relativamente tranquilli, Caterina si era messa a leggere.

La stanza era calda e immobile. La finestra era un po' aperta, per permettere all'aria di fine agosto di entrare assieme all'odore dei campi e della città, che si mescolavano in un effluvio stranissimo che, però, a Giovanni piaceva.

Il Popolano stava quasi per assopirsi, quando si sentì bussare alla porta. Infastidita, dato che che aveva dato a tutti l'ordine di non disturbarla, o, al massimo, di mandare Bianca, che poteva entrare senza annunciarsi, la Contessa si alzò subito e andò a vedere chi fosse.

"Perdonatemi, non volevo importunarvi, ma sono occorse due cose della massima urgenza di cui dovreste occuparvi." disse Luffo Numai, i cui occhi svelti erano subito corsi al fiorentino che giaceva inerme nel letto.

"Di cosa si tratta?" chiese la donna, in un sussurro.

"Achille Tiberti. È nel cortiletto e vi attende." rivelò il Consigliere, aggiungendo poi: "E inoltre c'è anche un altro uomo che vuole incontrarvi, ma quello non lo abbiamo lasciato entrare. Ha con sè tre cavalli."

Giovanni, anche se discretamente lontano, aveva sentito tutto e, nel vedere la schiena della moglie irrigidirsi in un modo tutto particolare, comprese quanto la Leonessa avrebbe voluto occuparsi subito di entrambe le faccende.

Per cui, quando la sentì dire che lasciava al castellano l'incombenza di prendere decisioni in merito a tutte e due le questioni, il Popolano tirò fuori tutta la voce che riuscì e le disse: "Non preoccuparti... Vai pure a vedere che è successo. Io abbastanza bene. Anche se resto solo qualche ora non muoio."

Caterina si morse il labbro e poi, incrociando lo sguardo del marito, le iridi chiarissime ancora vivide come quando si erano conosciuti, capì che non stava dicendo tanto per dire e così gli fece un cenno con il capo e provò a dire: "Se vuoi dico a Bianca di..."

"Per favore..." soffiò allora lui, mostrando infine una vaga insofferenza: "Vai e torna."

La Contessa, allora, seguì Numai fino al cortile, ma passò accanto a Tiberti facendo finta di non vederlo nemmeno, e si fece scortare dall'uomo che aveva con sè i cavalli.

"Che sono queste bestie?" chiese, guardando tre magnifici stalloni da guerra che stavano in fila come fossero stati addestrati per anni.

L'uomo, vestito in modo povero e dal fisico striminzito spiegò di essere un servo di Giampaolo Manfrone di Schio, comandante al soldo della Serenissima, e di aver rubato al suo padrone quei tre cavalli come omaggio per lei. In cambio, disse, inginocchiandosi, chiedeva di poter entrare nel suo esercito.

La Tigre comprese all'istante che da quel furto sarebbe nato un pasticcio, tuttavia, ormai la guerra c'era e, forse, se quel Manfrone che aveva una condotta veneziana li avesse attaccati per vendicarsi di quel danno, lei finalmente avrebbe avuto una scusa valida per attaccare direttamente Faenza, Rimini e Ravenna, alleate del Doge.

Ringraziò il servo e lo fece entrare alla rocca, spiegando a Mongardini che quell'uomo sarebbe stato subito arruolato e i cavalli usati per rimpolpare la scuderia.

La decisione che aveva preso, però, accettando quel dono, le impose di riavvicinarsi a Tiberti con tono diversi da quelli che si era proposta. Era una testa calda e spesso aveva contravvenuto ai suoi ordini, ma se presto la guerra fosse arrivata alle porte dello Stato, Caterina voleva avere gli uomini migliori per combatterla.

"Venite con me." gli disse e lo portò subito nello studiolo del castellano.

Gli chiese conto di quello che era successo a Pisa e di come poi fosse andato a Cesena senza avvisare e Achille, grattandosi in difficoltà il naso adunco, le rispose che aveva compiuto degli atti di disturbo nel cesenate contro alcune colonne veneziane, per vendicarsi della prigionia subita.

La Tigre finse di credere alla sua buonafede e gli disse di tenersi disponibile per qualsiasi cosa.

Tiberti, che aveva creduto di trovarla molto più rigida e iraconda, annuì e la guardò uscire, mentre il castellano tornava alla sua scrivania.

"Ma che le è successo?" chiese, guardando Cesare Feo stranito.

Questi strinse le labbra e poi, a malincuore, gli spiegò: "Messer Medici sta male. I dottori fanno il caso pericoloso di morte."

Al cesenate non servì altro per capire. Ora gli era chiaro perché, mentre gli parlava, la Sforza pareva immersa in tutt'altri pensieri.


La bastia di Vicopisano era finalmente caduta. Paolo Vitelli aveva impiegato tutto il suo genio militare per prenderla e ce l'aveva fatta.

Aveva spiegato il grosso del suo esercito: seimila fanti, trenta squadre di cavalli, ben duecento pezzi di artiglieria e una quantità notevole di guastatori.

Aveva perso molti uomini, ma la vittoria era stata sua.

Stava calando la sera e con essa il mese d'agosto. Paolo era seduto su uno sgabello da campo, nel centro del salone di rappresentanza della bastia. Era stanco. Aveva mangiato qualcosa, ma più di ogni altra cosa avrebbe voluto dormire.

Non si era risparmiato e adesso gli toccava pure incontrare uno per uno i suoi sottoposti, i Capitani e i vari condottieri, che gli porgevano gli onori per la meravigliosa battaglia che aveva portato a termine.

Mentre sentiva le parole untuose di Ottaviano Manfredi – un ragazzo, ai suoi occhi, che doveva ancora capire che la guerra non era solo menar le mani – la sua mente andò a quello che sarebbe successo dopo.

Aveva vinto, era vero, ma aveva perso molti soldati. Voleva l'appoggio di Giampaolo Baglioni, ma il perugino gli aveva detto che non avrebbe mosso un dito, se la Signoria non gli avesse alzato la condotta.

Trattenendo uno sbadiglio a fatica, Vitelli si ripromise di scrivere a Firenze quella sera stessa, cercando di convincere la Signoria a puntare su Baglioni. Con un po' di fortuna, quell'uomo orribile si sarebbe portato appresso anche il nuovo cognato, quel Bartolomeo d'Alviano sulla cui riservatezza in privato e crudeltà in battaglia tutti parlavano.

Manfredi aveva finalmente terminato il suo discorso e Paolo, che non aveva sentito nemmeno una parola, lo ringraziò e chiese al prossimo di farsi avanti.

Gli venne ancora voglia di sbadigliare, ma, così come imponeva – con successo – ai suoi soldati una disciplina ferrea, così la imponeva anche a se stesso. E dunque, malgrado si sentisse crollare di sonno, restò fino al principiare della notte fermo sul suo sgabello, lasciando che quel teatrino inutile, ma necessario, arrivasse alla sua naturale fine.


"È successo qualcosa?" chiese Giovanni, guardando la moglie che rientrava nella camera.

Quelli erano giorni estremamente concitati e il Medici, benché fosse molto preso dalla propria condizione, si era accorto benissimo di quanto Caterina fosse in ansia.

La donna stava già scuotendo la testa, quando incrociò lo sguardo di lui e si sentì scoperta, così, con un sospiro, gli si andò a mettere accanto. Sul letto, accanto al fiorentino, c'era il piccolo Ludovico che, come faceva spesso, dormiva con una manina protesa verso il braccio del padre.

Il Popolano era in uno stato pessimo, anche se, tutto sommato, lo si poteva dire stabile. I dolori c'erano sempre, ma la crisi più acuta sembrava essersi acuita. Ormai il più grande problema che aveva riguardava non tanto i tofi gottosi, quanto tutto il resto. Respirava spesso male, si sentiva oppresso, e le gambe erano sempre gonfie. Mangiava pochissimo e beveva ancor meno, aveva bisogno dell'aiuto costante della Tigre e di una serva per essere aiutato nelle cose anche più piccole e, per fortuna, il suo carattere gli aveva permesso di accettarlo senza troppi pudori, rendendogli se non altro quei momenti un po' meno penosi.

"Ci stanno attaccando sul confine." spiegò la Sforza, senza troppi giri di parole, con un sospiro.

L'aria dell'inizio di settembre, che sapeva ancora di piena estate, entrava dalla finestra aperta, spazzando via solo in parte il tanfo di malato che appestava la camera, ma la Leonessa non sentiva nè l'uno nè l'altro sentore. Nella sua mente c'era posto solo per due cose in quel momento: la guerra e suo marito.

A quella notizia Giovanni ebbe un piccolo moto di agitazione, ma appena si mosse nel letto, fece una smorfia di dolore e tornò fermo come prima: "Dove? E chi?" le chiese.

"Giampaolo Manfrone. Ha fatto scorrerie a Buganetto, Branzolino, Poggio e Roncadello. Circa duemila ducati di danno. Tutto con la scusa di tre cavalli..." sbuffò la donna stringendo i denti per la rabbia.

Il Medici si fece spiegare che intendesse e, quando la moglie ebbe finito di raccontare quanto accaduto qualche giorno addietro, l'uomo si prese un lungo momento per pensare.

"Mandagli contro Tiberti." le disse alla fine.

La Contessa aveva pensato esattamente la stessa, ma proprio quella mattina le era stato riferito che Achille aveva avuto degli attacchi febbrili squassanti e, temendo di essere stato avvelenato da qualche spia pisana, si era fatto caricare su un mulo ed era partito per Cesena per farsi curare: "Non posso. Non è qui..." tagliò corto, evitando di spiegare tutto il retroscena.

"Allora mandaci Ottaviano." propose il fiorentino, apparendo abbastanza sicuro della validità della sua idea.

"Pensi che sarebbe in grado di fare qualcosa?" chiese la donna, avvertendo subito uno strano nodo allo stomaco, all'idea di rispedire in guerra il figlio, con il rischio di vederlo di nuovo trasformarsi nello zimbello di tutta l'Italia.

"Se lo metterai al comando di quattro o cinque squadre di cavalleria scelta..." soppesò il Medici, fermandosi un istante per tossire: "Vedrai che non dovrà nemmeno alzare la spada una volta. Sapere che stai reagendo pattugliando il confine dissuaderà Venezia dall'attaccarci tanto presto."

"Forse all'inizio." convenne Caterina, passando lentamente la punta delle dita sulla fronte sudata di Giovanni: "Ma se poi dovessero capire che è solo fumo..."

Il marito aveva chiuso un po' gli occhi, godendosi il tocco leggero della Tigre, quasi sciogliendosi, già indebolito dal suo patire, davanti a quel gesto di affetto, ma quando parlò lo fece con la fermezza di un uomo nel pieno delle forze: "Nel frattempo richiama i nostri cavalieri scelti da Pisa. Là possono cavarsela anche senza, basta la nostra artiglieria. E fai subito un reclutamento di massa, che ci serviranno tutti quanti i soldati possibili. E scrivi a tutti quelli che potrebbero aiutarci, che ci mandino sostegno. E quando Ottaviano Manfredi si farà avanti con le sue proposte, ti prego, ascoltalo, perché credo che possa essere davvero d'aiuto."

La Leonessa ascoltò tutto e deglutì in silenzio. In altri tempi, le parole del Popolano avrebbero avuto su di lei una presa tutta diversa. Avere un marito così sicuro e intraprendente, pronto a spalleggiarla davvero in una guerra, sarebbe stato un fuoco per lei, da giovane.

Ormai, però, la sua vista si era fatta più breve, valutava più da vicino i contro e non solo i pro di uno scontro così incerto. Anche se il fascino di quella proposta poteva sedurla benissimo, la sua mente le imponeva cautela.

"Lo sai che è la scelta migliore." insistette Giovanni, prima di fare un altro colpo di tosse: "Ah, e quando verrà il momento stai attenta a Lorenzo. Non è più il fratello che credevo di conoscere. Non ti devi fidare di lui."

A quell'ultimo inciso, che pareva messo lì a caso, seguì un altro accesso di tosse secca e ostinata, che, dopo un po', svegliò Ludovico.

Il bambino spalancò gli occhietti allungati e tese le braccia e le gambe, guardando perplesso i due genitori.

"Va tutto bene, piccolino..." gli sussurrò il Medici, non appena riuscì di nuovo a parlare.

Mentre il fiorentino muoveva appena la testa verso il figlio, per sentirlo più vicino, nella mente di Caterina cominciò una dura battaglia. Si sentiva ancora debole, per via della febbre che, malgrado tutto, non l'aveva ancora lasciata in pace. Aveva l'impressione che la guerra le stesse sfuggendo di mano, perché non era libera di pensare solo a tattiche e strategie e dunque doveva fidarsi molto anche dei suoi consiglieri. Avrebbe voluto fare in toto quello che Giovanni le aveva suggerito, ma aveva paura che, in tal caso, si sarebbe trovata tanto assorbita dagli affari di Stato da trascurarlo. E non poteva trascurarlo proprio in quel momento.

"Hai poi deciso come ribattezzarlo?" chiese il Popolano, indicando il figlio con lo sguardo.

Ludovico, quasi sentendosi chiamato in causa, fece un versetto e si mise a tirare il camicione del padre, come a voler attirare la sua attenzione.

Caterina, che era accanto a lui, allungò una mano e accarezzò la testa del bambino, su cui stavano crescendo sempre più folti dei riccioli molto simili a quelli di Giovanni: "No, non ho più pensato a come chiamarlo."

"Non lasciargli come nome Ludovico." insistette il Medici, la voce appena più flebile: "Per te è un nome troppo difficile da sopportare. Lo so che gli incubi non ti lasciano e io voglio che per te nostro figlio sia solo qualcosa di bello, che non sia collegato a nessuna tragedia."

"Avremo modo di parlarne più tardi..." prese tempo lei, che leggeva nel tono de marito un che di dimesso che non le piaceva affatto.

Giovanni strinse un po' le labbra e cercò di chiamare a sè un po' d'aria, prima di dire: "Leggimi qualcosa."

Quando calò la sera, il fiorentino riuscì ad assopirsi abbastanza in fretta, cullato dalla voce della moglie che leggeva per lui Petrarca e dal respiro lento del figlio, che, tranquillo come un angelo, era rimasto al suo fianco praticamente tutto il giorno.

Caterina, appena si accorse che il marito dormiva, si alzò e si andò a mettere alla scrivania. Anche mentre leggeva, non aveva smesso un momento di pensare alla situazione del suo Stato e aveva stilato mentalmente una lista di persone che, forse, avrebbero potuto aiutarla senza chiederle troppo in cambio.

Cominciò a scrivere lettere, in vari toni, a molti dei signori delle terre del Ducato di Milano e non solo. Alla fine, benché non fosse molto certa di quel che faceva, decise di mandare una missiva anche a Francesco Gonzaga. Stimava sua moglie Isabella che, si diceva, fosse una donna di ingegno fino e di grande spessore e sapeva anche, grazie alle sue spie e ai pettegolezzi giunti fino in Romagna, che il Marchese fosse alla disperata ricerca di un modo per tornare nelle grazie dell'Este.

Rimarcò la sua parentela – calpestata – con Alfonso Este, vedovo di sua sorella Anna Maria, e insistette sul fatto che aiutandola nel difendersi, avrebbe ottenuto lustro agli occhi non solo di Milano, ma anche di Isabella. Non sapeva se quella vana promessa potesse funzionare, ma tanto valeva provarci.

Si diceva che il Gonzaga fosse di ritorno da un pellegrinaggio a Loreto. Offrirgli la possibilità di tornare in campo non era una cosa da poco.

Stava già per spegnere la candela e rimettersi a letto, nella speranza di dormire almeno un paio d'ore, quando l'occhio le cadde sul marito. Steso inerme, supino accanto a Ludovico, dormiva con la bocca un po' aperta e il corpo mezzo scoperto, per evitare che le sue piaghe dolessero al contatto con il lenzuolo.

Per quanto volesse rifiutare l'idea, la Sforza sapeva benissimo che Giovanni stava combattendo una guerra a parte e che difficilmente l'avrebbe vinta. Nessuno dei dottori che aveva interpellato aveva saputo dirle che fare. Qualcuno aveva timidamente proposto di provare con le acque delle terme, o con le cure che conoscevano le monache, ma la Contessa per il momento aborriva l'idea di separarsi di nuovo dal Medici.

Anche se la cosa sorprendeva lei per prima, da quando il suo uomo era tornato, anche se non era più in grado di starle accanto come avrebbe voluto, a lei bastava così. Non aveva nemmeno più sentito il bisogno di cercare la compagnia di qualcuno. Era totalmente assorbita da lui e l'unica cosa che le importava era stargli accanto.

Ma sapeva che Giovanni non poteva più difenderla. Sapeva e, parlandole quella sera lui stesso gliene aveva dato conferma, che anche Firenze l'avrebbe abbandonata, se fosse rimasta sola, perchè suo cognato Lorenzo la odiava.

Così, con il cuore pesante quanto un macigno, riprese la penna, la intinse e, su un foglio nuovo, iniziò a scrivere una lunga e dolorosa lettera a suo zio, il Duca di Milano.

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Sotto Controllo By 13_smdk

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