La nascita del sole aveva colto la Contessa e il Popolano ancora stretti l'uno all'altra sotto il leggero lenzuolo estivo, intenti a scambiarsi raccomandazioni e consigli in vista dell'imminente separazione.
Fu Caterina la prima, rendendosi conto che il mattino era ormai arrivato, a dire: "Forse dovremmo cominciare a vestirci."
Giovanni sembrava molto meno propenso ad affrettare i tempi. In fondo si era deciso che sì, sarebbe partito di buon'ora, ma senza fretta. Anche se Corradini voleva sfruttare al meglio la prima giornata di viaggio, per non arrivare in prossimità delle montagne in un momento sfavorevole, era stato decretato che non fosse il caso di partire all'alba.
La piccola scorta che avrebbe accompagnato Giovanni probabilmente stava ancora dormendo a quell'ora. O, se non dormendo, per lo meno non era ancora intenta a mettersi addosso abiti e armature.
"Sai a cosa stavo pensando, prima?" chiese l'uomo, restandole vicino, petto contro petto, e sfiorandole la pelle della schiena con la punta delle dita: "Che io sono ancora innamorato perso di te, dopo più di un anno di matrimonio. Dicono tutti che questo genere di passione brucia in fretta, ma io ti desidero ancora come il primo giorno."
La Sforza fece un breve sorriso e poi, più per non lasciarsi prendere dallo sconforto che altro, fece un sospiro e disse, a voce abbastanza alta e sbrigativa: "Avanti, è ora di prepararci. È da sciocchi sperare di fermare il tempo."
E prima che il Medici potesse provare a fermarla, la donna si alzò dal letto e si mise a sistemare gli abiti che avrebbero indossato.
Il fiorentino la osservò per qualche istante mentre, infilatasi una leggera vestaglia, vagava per la stanza, indaffarandosi più del dovuto probabilmente solo per evitare di proseguire il discorso.
Alla fine, quando anche lui lasciò il loro giaciglio, la Sforza gli fece vedere l'abito che aveva scelto per lui.
Avevano deciso che avrebbe lasciato la città senza grandi cortei, né troppo spettacolo. Ci sarebbero stati gli stendardi e i tamburi, perché nessuno doveva pensare che Giovanni stesse scappando in sordina da Forlì. Tuttavia, non ci sarebbe nemmeno stato il dispiegamento di forze che aveva accompagnato Ottaviano alle porte.
Caterina, dopo aver passato le brache al marito, prese il camicione bianco che avrebbe portato sotto al giubbetto rosso e oro, ma il Medici la fermò: "È ancora presto." le sussurrò.
La donna incrociò per un istante i suoi occhi chiari e ribatté: "Non vorrai essere l'ultimo ad arrivare nel cortile."
"Ma nemmeno il primo." mise in chiaro l'uomo, passandosi una mano tra i riccioli un po' umidi di sudore, e sforzandosi di fare un sorriso degno di tale nome: "Ti prego, Caterina..." le bisbigliò, fermandole le mani, che stavano spiegando il camicione davanti a lui.
La moglie lo guardò fingendo di non capire. Sapeva benissimo cosa voleva ancora da lei, ma cercava di non prestargli il fianco.
"Ti prego: ancora una volta." soffiò lui, inducendola a posare il camicione sulla scrivania e facendo correre una mano al bordo della sua vestaglia, con la stessa lenta irruenza con cui l'aveva fatto molte altre volte da che si amavano: "Ti voglio così tanto..."
La Contessa, che nelle ultime ore era stata tutt'altro che avara con il marito, avrebbe voluto dire di no per molti motivi, ma alla fine, trovandosi a sbattere contro l'ineluttabile evidenza che prima che arrivasse il mezzogiorno lei sarebbe stata sola, non gli si negò nemmeno quella volta.
"Mi raccomando – stava dicendo il castellano, guardando il Capitano Giovanni Corradini con occhio penetrante – seguite alla lettera quello che vi ha detto la Contessa."
"Ci mancherebbe anche." rimbeccò l'altro, legandosi in vita il cinturone con la spada.
Il castellano soprassedette sul tono un po' arrogante dell'uomo e guardò fuori dalla finestra dei baraccamenti. Il sole splendeva, quella mattina, ma i suoi raggi sembravano malati e gettavano una strana luce sulla rocca.
"Avete messo al sicuro tutte le carte di messer Medici..?" fece Cesare, ricordandosi di tutti i documenti che il Popolano aveva redatto, con il suo aiuto, per fare richiesta alla Signoria di cittadinanza per la moglie e i figli di lei.
Anche se Giovanni era abbastanza certo che, una volta a Firenze, avrebbe dovuto rivederli e correggerli per evitare vizi di forma, aveva voluto a tutti i costi prepararne almeno una bozza, per poter affrettare i tempi.
Il Medici non voleva fermarsi in città più dello stretto indispensabile, in modo da trovarsi nei pressi di Pisa, da Ottaviano, prima che si venisse a uno scontro serio tra fiorentini e veneziani.
"Certo. Nel bauletto che conserverò personalmente." confermò il Capitano, con un mezzo fischio che voleva essere rassicurante: "Dovrebbero tagliarmi la gola da un orecchio all'altro, per portarmeli via."
"Vi auguro che non accada." ribatté il castellano, con una certa acidità.
Il soldato parve divertito da quello scambio di battute, ma non volle proseguire il discorso, mettendosi a controllare che gli stivali da cuoio fossero in ordine e così le brache di lana cotta, indumento troppo pesante per la stagione, ma, a suo dire, necessario per proteggersi dai rovi che avrebbero trovato in alcuni punti della strada.
"Mi auguro che troviate bel tempo..." fece Cesare, tornando a guardare Corradini.
Il Capitano alzò le spalle e disse solo: "Bel tempo o brutto, la strada è comunque scomoda."
Irritato dal modo in cui l'altro continuava a rivolgerglisi, il castellano sbuffò e poi concluse, andando verso la porta: "Messer Medici dovrebbe essere in cortile a breve. Vi prego di farvi trovare pronto."
Giovanni Corradini annuì e si batté una mano sull'elsa della spada: "Io e la mia lama ci saremo. E state tranquillo: ci teniamo a tenere in vita l'uomo della Contessa."
Il Feo preferì non controbattere di nuovo, per evitare di perdere il controllo di quello che diceva e uscì dai baraccamenti.
Era molto agitato per quella partenza. Sapeva che Giovanni Medici era un uomo sveglio, che sapeva il fatto suo, ma andare dove si combatteva era sempre un rischio. Se per caso quel fiorentino non fosse tornato vivo...
Cesare scosse la testa, allacciandosi le mani dietro la schiena e occhieggiando insofferente verso il sole – caldo, ma opaco – che picchiava sulla sua testa già a quell'ora.
Non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe successo, se la Tigre fosse rimasta di nuovo vedova.
Vederla distruggersi dopo la morte di Giacomo gli era bastato. Suo nipote era morto all'improvviso e molto giovane e forse quello aveva acuito il dolore della Sforza, ma di certo nemmeno perdere un uomo in battaglia le sarebbe risultato più semplice.
"Che Dio ce la mandi buona..." borbottò tra sé il castellano, aggirando il cortile e cominciando a chiedersi, vedendo parte dei soldati della scorta già pronti, dove accidenti si fosse cacciato il fiorentino.
"Non partire." buttò lì, lanciata dall'onda emotiva, Caterina, che teneva la testa appoggiata alla sua spalla e una mano sul suo ventre.
Il Medici sospirò e, chiudendo un momento gli occhi, come a voler catturare quel momento di pace per sempre, le rispose: "Lo sai che devo farlo."
Con un sospiro lento, la Tigre annuì appena e, malvolentieri, dopo aver stretto un po' la presa sul fianco di lui – quasi un ultimo e futile tentativo di trattenerlo – si mise a sedere e così fece anche il marito. Si scambiarono ancora qualche bacio, ma poi, senza doverne discutere più, si vestirono e si prepararono a quello che li aspettava.
"Sembri un principe." notò la Leonessa, rimirando il fiorentino che, vestito di tutto punto, stava recuperando i guanti che gli aveva fatto Bianca e che avrebbe indossato lungo il viaggio per proteggere le sue malandate articolazioni dalla frizione con le redini.
Giovanni fece un sorriso, per la prima volta da tanto tempo le sue labbra disegnarono la linea dolce e pacata che erano solite tratteggiare i primi tempi in cui Caterina lo aveva conosciuto.
Avrebbe voluto dirlo qualcosa, anche solo che quell'affermazione era troppo lusinghiera, ma la voce gli morì in gola e così, con passo abbastanza deciso, andò verso la porta.
La moglie lo seguì e in pochi istanti furono nel cortile d'addestramento dove ormai tutti quanti, compresi i figli, erano già in attesa.
Mongardini e Rossetti, tra quelli che erano lì assiepati solo per salutare il Medici, si scambiarono un'occhiata significativa, quando marito e moglie fecero la loro apparizione.
Tanto vicini da non riuscire a fare mezzo passo senza sfiorarsi, ancora rossi in viso e dall'aspetto abbastanza provato, il Popolano e la Contessa davano ai due Capitano l'impressione di aver passato la notte non a dormire, ma a fare altro e, anzi, a tutti e due parve plausibile che la lunga attesa a cui tutti quanti erano stati costretti fosse dovuta a un improvviso ritorno di fiamma che aveva rallentato i preparativi della coppia.
In un clima abbastanza mesto, Giovanni salutò alcuni dei Capitani e dei Consiglieri della moglie con cui aveva legato di più. Chiese al castellano di scrivere egli stesso a Ridolfi a Imola dicendogli che si sarebbe messo in contatto con lui non appena possibile, per rassicurarlo circa la sua salute.
E poi passò ai figli. Cesare non c'era, e il Medici se l'era aspettato. Galeazzo pareva restio a salutarlo con un abbraccio, ma quando il Popolano lo strinse a sé, il ragazzino ricambiò e non ci fu bisogno di tante parole.
Sforzino, invece, pareva un po' in soggezione, nei confronti del fiorentino a così l'uomo si accontentò di posargli una mano sulla spalla e raccomandargli di stare bene e studiare sempre.
Bernardino, quando venne il suo turno, si aggrappò al collo del Medici con tanta forza che Giovanni fece molta fatica a levarselo di dosso.
"Stai attento a tua made – gli sussurrò all'orecchio, prima di riuscire a rimetterlo in terra – ricordati quello che ti ho detto. Stalle vicino. Ha bisogno di te."
Infine c'era Bianca, con Ludovico in braccio. Il Popolano si fece dare il piccolo e, sforzandosi con tutto se stesso di non commuoversi, gli diede un bacio in fronte e lo salutò con qualche breve parola appena udibile.
A quel punto lo passò alla moglie, con cautela, e guardò Bianca: "Mi raccomando." le disse e non ci fu bisogno d'altro, se non di un abbraccio che si concluse con una piccola pacca sulla spalla della ragazza, che, senza nemmeno provare a frenarsi, si era messa a piangere in silenzio.
Caterina le ridiede Ludovico e poi guardò Giovanni, che aveva appena preso le redini del cavallo che uno degli stallieri gli stava porgendo.
"Torna da me. Vivo." gli disse lei, nel silenzio tombale del cortile.
Il Medici annuì, deciso, come se davvero una scelta simile dipendesse interamente dalla sua volontà.
Marito e moglie si fissarono negli occhi per un lungo momento e poi, tornando presenti alla realtà, si salutarono con un cenno del capo.
Il fiorentino stava già conducendo verso il primo cortile la sua bestia, seguito da Corradini e dagli altri, quando Caterina non resistette oltre e lo chiamò: "Giovanni!"
Sorpreso da quell'esclamazione, il Medici si voltò e per poco non cadde per l'irruenza della Tigre che, correndogli incontro, gli si era gettata tra le braccia e lo aveva baciato.
Nessuno dei soldati o dei familiari presenti osò commentare o manifestare in qualche modo le proprie impressioni riguardo a quel frangente.
Sapendo che, se non avesse fatto qualcosa di risolutivo, non sarebbe mai riuscito a staccarsi dalle labbra della moglie, Giovanni indugiò ancora un istante e poi, allontanandola da sé, con dolcezza, ma anche con una certa decisione, montò in sella.
Da quella posizione, guardò verso di lei e le dedicò un cenno del capo, che la donna comprese al volo, perché racchiudeva tutto quello che si erano detti e tutto quello che avevano fatto quella notte.
Mentre il marito usciva, alla testa degli uomini che lo avrebbero scortato – poco più di un manipolo di soldati scelti – la Leonessa non perse tempo e corse alle scale. Salì i gradini a due a due e arrivò sui camminamenti in tempo per guardare Giovanni che usciva dalla rocca.
Lo vide voltarsi spesso indietro, scrutando verso le merlature, fino a che la individuò. A quel punto i due si guardarono fino a che l'uomo non arrivò alla porta Ravaldino.
Incorniciato dai soldati che cavalcavano con lui e portavano insieme lo stendardo della Contessa e del Medici, l'uomo sollevò una mano verso di lei e Caterina, tenendosi alla fredda pietra della rocca, fece altrettanto.
Il fiorentino si voltò e la donna, vinta dalla stanchezza e dall'ansia, si nascose dietro una delle merlature, per costringersi a non guardarlo più e a ricacciare indietro le lacrime.
Uno dei soldati di ronda, pur non volendo essere invadente né essere frainteso, vedendo la sua signora lasciarsi scivolare lungo la parete, fino a sedersi in terra con la testa tra le mani, le chiese se stesse bene.
La Sforza fece segno di no con la testa, ma non disse nulla, facendo un cenno con la mano all'uomo affinché la lasciasse in pace.
Caterina sentiva ancora il calore e l'odore di suo marito addosso a sé. Sapere che quella notte sarebbe stata da sola, l'atterriva. La spaventava ritrovarsi a fronteggiare se stessa e i suoi bisogni.
Oltre alla paura di non vederlo tornare, alla sua inquietudine si sommava anche quello. Trovarsi da sola con se stessa le parve all'improvviso una prova troppo grande da sopportare.
Mentre stava rimuginando e si stava chiedendo se Giovanni fosse già abbastanza lontano da non essere più a tiro d'occhio, sentì qualcuno accucciarsi accanto a sé. Aprì un occhio per controllare chi fosse e si morse la lingua appena in tempo, quando vide che si trattava di Bianca.
Era già pronta a prendere a male parole chiunque la stesse disturbando in quel momento, ma dato che si trattava di sua figlia, disse solo: "Hai bisogno di qualcosa?"
In tutta risposta, la giovane Riario le mise un braccio attorno alle spalle e, per quanto temesse una sua reazione inconsulta a quel gesto d'affetto, strinse un po' e le assicurò: "Non siete sola."
Caterina la fissò per un lungo istante, rivedendo nei suoi occhi blu e nei suoi capelli biondi più sua madre Lucrezia che non sé stessa.
Incapace di gestire la carica emotiva di quel momento, tirò su con il naso e, schiaritasi la voce, si rimise in piedi, sciogliendosi dal suo mezzo abbraccio e dicendole, sperando di non suonare troppo perentoria: "Forza, abbiamo molte cose da fare. Anche se Giovanni è partito, la vita non si ferma."
Bianca fece un respiro lungo e fondo, ma si disse che quel modo di reagire era comunque migliore di altri: "Avete bisogno che vi aiuti?"
La Tigre stava già per dire di no, ma poi non volle vanificare del tutto lo sforzo che sua figlia aveva fatto nell'andare a cercarla sui camminamenti per consolarla: "Se vuoi... Tra una mezz'ora andrò al quartiere militare per controllare quanti effettivi in forze ci restano dopo la spedizione di tuo fratello. Potresti aiutarmi con le carte."
Bianca accettò all'istante e, una volta tanto, sua madre le dedicò anche un breve sorriso che era di semplice gratitudine.
Giovanni teneva gli occhi serrati da parecchi minuti. Da quando aveva oltrepassato le porte cittadine, e aveva salutato per l'ultima volta sua moglie, li aveva chiusi per costringersi a non voltarsi più nel tentativo di vederla ancora.
Temeva che bastasse un solo sguardo di troppo per far sgretolare la poca sicurezza che portava nel cuore.
Sentiva ancora addosso l'odore della sua pelle, il profumo degli olii in cui si erano immersi il giorno prima, il suo sapore sulle labbra, il tocco caldo e possessivo delle sue mani sulla schiena, il fremere del suo seno contro il petto, il suo respiro affannoso e rovente sul collo, le sue cosce che gli si stringevano attorno ai fianchi, la sua voce che gli sussurrava roca e spezzata il suo nome proprio mentre...
"Messer Medici... State bene?" la voce del Capitano Corradini strappò con violenza Giovanni dai suoi ricordi.
Il fiorentino spalancò gli occhi e guardò l'uomo che cavalcava accanto a lui: "Certo. Certo che sto bene..." rispose, anche se, nell'avvertire un blocco di ghiaccio scendergli tra il cuore e l'anima nel pensare che quella notte accanto lui non ci sarebbe stata Caterina, non si sentiva bene per niente.
Le montagne si stagliavano, sempre più vicine, dinnanzi a lui. Alle sue spalle c'era Forlì, ormai così lontana da permettergli di vedere solo la cinta muraria e il profilo della rocca.
Sperando che sua moglie fosse già rientrata, il fiorentino trovò finalmente il coraggio di guardarsi alle spalle ancora una volta.
Sui camminamenti poteva forse intravedere qualche piccola macchia scura, ma si convinse che fossero solo i soldati di ronda.
Dedicò una breve occhiata al resto della città, alle sue torri e alle sue mura. Adesso che vi si era fermato per oltre due anni, la vedeva in modo diverso, da quando era arrivato.
Ricordava molto bene la prima impressione che aveva avuto di Forlì, la quieta spavalderia che aveva portato con sé nell'entrarvi, e le certezze che si erano andate via via affievolendo, man mano che capiva di essere innamorato della donna da cui tutti, prima della sua partenza da Firenze, lo avevano messo di continuo in guardia.
Ripensare a Firenze, e sapendo che in pochi giorni vi sarebbe tornato, lo indusse a pensare a suo fratello.
Non gli aveva mai detto di essere peggiorato, non gli aveva mai scritto di come la gotta lo stesse pian piano consumando. Anche se Lorenzo sapeva che era malato, dato che le prime volte era stato male in sua presenza, era probabile che lo credesse cristallizzato in uno di quei momenti che a volte, in uno slancio di clemenza, la malattia di famiglia concedeva alle sue vittime.
In fondo, anche il loro cugino che ne era morto a quarantatré anni aveva passato lunghissimi periodi di apparente benessere.
Giovanni fece un sorriso amaro. Suo fratello avrebbe capito presto che per lui non era stato così.
Caterina era rimasta fino a tarda sera con la figlia al quartiere militare dove, aiutata da Luffo Numai e dal Capitano Mongardini, aveva censito accuratamente i soldati e i pezzi di artiglieria presenti.
Bianca si era data da fare quanto lei, e a fine giornata era tanto stanca che aveva deciso di sorvolare sulla sua abitudine di andare nelle cucine a chiacchierare, ritirandosi subito dopo la cena per dormire.
La Sforza, invece, si era dimostrata molto più irrequieta della figlia. Benché avesse anche lei sonno e si sentisse stanca – sia emotivamente sia fisicamente – non voleva ancora trovarsi da sola in camera.
Si chiedeva di continuo dove fosse a quell'ora Giovanni, se si fossero già fermati per la notte, se il viaggio stesse andando bene, se avessero mangiato. Non poter aver risposta a quelle semplici domande l'atterriva e la faceva sentire del tutto impotente.
Di contro, poi, sentiva il suo sangue ribollire e non riusciva a stare ferma. Era in uno stato di agitazione che non conosceva più da parecchio tempo.
Anche se al quartiere aveva fatto di tutto per sfinirsi, aiutando perfino i manovali a spostare alcune palle di cannone e alcune armi pesanti, il suo corpo sembrava non voler rispondere al richiamo del sonno.
Aveva bevuto un po' di vino in più del solito, a cena, ma non aveva ecceduto perché voleva restare lucida, pronta a qualsiasi cosa.
Anche se per anni aveva contato quasi esclusivamente sulle sue forze, nel governare, da quando era la moglie di Giovanni, aveva cominciato a sentirsi appoggiata e aiutata da lui come mai da nessun altro. Ritrovarsi di nuovo sola, la metteva sull'attenti.
Finito di mangiare, tanto per tirare tardi, aveva fatto un giro della rocca, andando a controllare anche le stalle e i baraccamenti. Trovando tutto in ordine e tranquillo, non aveva avuto altre scuse ed era andata verso la camera da letto.
Prima di entrare, però, si era detta che una puntatina alla sala delle letture magari le avrebbe conciliato il sonno. Però, quando si era trovata sulla poltrona imbottita, con un libro di poesie in mano, si era resa conto che quel genere di svago era quanto di peggio potesse scegliere per non pensare a suo marito.
Alla fine, a notte ormai fatta, rendendosi conto che non era fattibile passare insonne ogni notte in attesa che tornasse Giovanni e al contempo governare bene, andò nella camera di Ludovico. Fece uscire le balie e, dopo aver cullato un po' il figlio – che aveva pianto, le dissero, per ore dopo la partenza del padre, per tranquillizzarsi solo quando era arrivata lei a tenerlo tra le braccia – lo adagiò nella culla e si mise nella poltrona accanto.
Senza accorgersene, scivolò nel sonno e non si risvegliò fino al mattino dopo, quando, già bagnata dai primi raggi del sole, il solito incubo che la rivedeva uccidere Ludovico Marcobelli le tolse ogni voglia di provare a riaddormentarsi.