Se io potessi scrivere tutto...

By RebeccaValverde

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(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Du... More

Capitolo 250: nobis,cum semel occidit brevis lux,nox est perpetua una dormienda
Capitolo251:Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male
Capitolo 252: Per me si va ne la città dolente...
Capitolo 253: ...per me si va ne l'etterno dolore...
Capitolo 254: ...per me si va tra la perduta gente.
Capitolo 255: Giustizia mosse il mio alto fattore...
Capitolo 256: ...fecemi la divina potestate...
Capitolo 257: ...la somma sapienza...
Capitolo 258: ...e 'l primo amore.
Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...
Capitolo 260: ...se non etterne...
Capitolo 261: ...e io etterno duro.
Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
Capitolo 263: Non uccidere.
Capitolo 264: Settanta volte sette.
Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris
Capitolo266:Impossibile non sia cattivo chi un irrimediabile dramma ha abbattuto
Capitolo 267:ma se i tuoi occhi sono cattivi, sarai totalmente nelle tenebre.
Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.
Capitolo 269: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.
Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.
Capitolo 271: Cuius vulturis hoc erit cadaver?
Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.
Capitolo 273: Ma voi siate astuti come i serpenti e puri come le colombe.
Capitolo 274: Io stesso ero divenuto per me un grande enigma
Capitolo 275: Errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat
Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi
Capitolo 277: Relata refero
Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.
Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur
Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.
Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!
Capitolo 282: Obtorto collo
Capitolo 283: Fiducia
Capitolo 284: Superbiam iracundi oderunt, prudentes irrident
Capitolo 285: Anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo
Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze
Capitolo 287: Potius sero quam nunquam
Capitolo 288: Sii pronto nell'ascoltare, lento nel proferire risposta
Capitolo 289: Ducis in consilio posita est virtus militum
Capitolo 290: Chi fugge dalla battaglia può combattere un'altra volta
Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini
Capitolo 292: Tutti torniamo a la grande madre antica
Capitolo 293: Hodie mihi, cras tibi
Capitolo 294: Prendere le misure
Capitolo 295: Il papa ha dieci anime
Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...
Capitolo 297: Flectamur facile, ne frangamur
Capitolo 298: Amore cerca di medicare l'umana natura
Capitolo 299: E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta.
Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.
Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere
Capitolo 303: Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!
Capitolo 304: Simone Ridolfi
Capitolo 305: A caccia
Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico
Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis
Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.
Capitolo 309: Nulli necesse est felicitatem cursu sequi
Capitolo 310: Non semper temeritas est felix
Capitolo 311: Panem et circenses
Capitolo 312: Neminem cito accusaveris, neminem cito laudaveris
Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram
Capitolo 314: Cras ingens iterabimus aequor
Capitolo 315: Dove ci sono troppe mani, usa la chiave
Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent
Capitolo 317: Dove men si sa, più si sospetta
Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset
Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.
Capitolo 320: Ingégnati, se puoi, d'esser palese.
Capitolo 321: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Capitolo 322: Ama chi t'ama, e accostati a chi ti s'appressa
Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est
Capitolo 324: Tu ne cedes malis, sed contra audentior ito
Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia
Capitolo 326: Non tramonti il sole sopra la vostra ira.
Capitolo 327: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido.
Capitolo 328: Sera nimis vita est crastina
Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!
Cap. 330: Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade
Capitolo 331: Necessitas ultimum et maximum telum est
Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille
Capitolo 333: O luce candidiore nota!
Capitolo 334: Il nuovo Governatore
Capitolo 335: Très braves et vaillans capitaines
Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.
Capitolo 337: Martedì Grasso
Capitolo 338: Il Falò delle Vanità
Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni
Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata
Capitolo 342: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore
Capitolo 343: De fumo ad flammam
Capitolo 344: Quis legem det amantibus?
Capitolo 345: Maior lex amor est sibi
Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai
Capitolo 347: È meglio sposarsi che ardere
Capitolo 348: Felix qui quod amat defendere fortiter audet
Capitolo 349: Unde fames homini vetitorum tanta ciborum?
Capitolo 350: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli
Capitolo 353: Nil sine magno vita labore dedit mortalibus
Capitolo 354: Eripere telum, non dare irato decet.
Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.
Capitolo 356: Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio
Capitolo 357: L'Amor, che m'è guerrero ed enemico...
Capitolo 358: 14 giugno 1497
Capitolo 359: Permitte divis cetera
Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.
Capitolo 361: Ride, si sapis.
Capitolo 362: Sangue
Capitolo 363: Heu, coscientia animi gravi est servitus!
C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...
Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.
Capitolo 366: Amor gignit amorem
Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.
Capitolo 368: Ognuno dovrebbe fare il mestiere che sa
Capitolo 369: Tacitulus Taxim
Capitolo 370: Dica pur chi mal vuol dire, noi faremo e voi direte.
Capitolo 371: Noli me tangere
Capitolo 372: Ipsa sua melior fama
Capitolo 373: Ché voler ciò udire è bassa voglia.
Capitolo 374: Fare del proprio meglio
Capitolo 375: Siamo alle porte co' sassi...
Cap376:Chi non ha ottenuto la fiducia del sovrano, non agisce come suo generale
Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent
Capitolo 378: Absit iniuria verbis
Capitolo 379: Chi è diffamato, è mezzo impiccato
Capitolo 380: Fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est
Capitolo 381: Virgo Intacta
Capitolo 382: Un anno esatto
Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum
Capitolo 384: Ribellione
Capitolo 385: Cursus honorum
Capitolo 386: Fame
Capitolo 387: Notissimum quodque malum maxime tolerabile
Capitolo 388: Roma locuta, causa finita
Capitolo 389: Carpe diem
Capitolo 390: La prova del fuoco
Capitolo 391: Che c'è di più dolce del miele? Che c'è di più forte del leone?
Capitolo 392: Nihil necesse est, undique enim ad inferos tantundem viae est
Capitolo 393: Ci vuole pazienza
Capitolo 394: Doppia caccia
Capitolo 395: Omnes eodem cogimur
Capitolo 396: Il titol di più onore è padre e difensore
Capitolo 397: Io son l'Occasione, a pochi nota...
Capitolo 398: 23 maggio 1498
Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra
Capitolo 400: Dichiarazione di guerra
Capitolo 401: Mi basta bene l'animo de difendermi
Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio
Capitolo 403: Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela
Capitolo 404: La via dello andare all'Inferno era facile...
Capitolo 405: ...poiché si andava allo ingiù e a occhi chiusi.
Capitolo 406: 21 giugno 1498
Capitolo 407: Miser Catulle, desinas ineptire...
Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.
Capitolo 409: Incipe, parve puer...
Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae
Capitolo 411: Fame da lupi
C412:Da mi basia mille,deinde centum,dein mille altera,dein secunda centum...
Capitolo 413: Acqua lontana non spegne il fuoco
Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu
Capitolo 415: Fratelli
Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum
Capitolo 417: Chi dice che gli è cosa dura l'aspettare, dice el vero.
Capitolo 418: Valiceno
Capitolo 419: Stillicidi casus lapidem cavat
C420: Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato...
Capitolo 421: Tu quidem macte virtute diligentiaque esto
Capitolo 422: Deos fortioribus adesse
Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...
Capitolo 424: Tristis eris si solus eris
Capitolo 425: Hannibal ad portas
Capitolo 426: Arduo essere buono
Capitolo 427: Tramontata è la Luna, tramontate le Pleiadi...
Capitolo 428: È a mezzo la notte...
Capitolo 429: ...trascorre il tempo; io dormo sola.
Capitolo 430: Sit tibi terra levis
Capitolo 431: Contro i tristi tutto il mondo è armato
Capitolo 432: Ordini
Capitolo 433: Et so quello che dico.
Capitolo 434: Nessuno ama l'uomo che porta cattive notizie
Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia
Capitolo 436: Odi et amo
Capitolo 437: Ambasciator non porta pena
Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame
Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis
Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male
Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.
Capitolo 442: Non fuit in solo Roma peracta die.
Capitolo 443: Il respecto, suspecto, et despecto.
Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores
C445: Perché non si dica mai che uno straniero è stato nostro comandante.
Capitolo 446: Campane a martello
C447:Ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere...
Capitolo 448: Non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina.
Capitolo 449: Ottaviano Manfredi

Capitolo 352: Porte chiuse

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By RebeccaValverde


Su Firenze e sulle campagna vicine, continuava a diluviare senza sosta. Pur tenendo i figli al sicuro in campagna, Lorenzo e Semiramide avevano preferito spostarsi in modo quasi stabile a Palazzo Medici, in città, per ridurre gli spostamenti con quelle strade fangose e piene di pericoli.

L'unica nota positiva, secondo certi fiorentini, di quel clima intemperante era il fatto che la pesta sarebbe rimasta lontana dalla repubblica, preferendo l'altro versante appenninico.

Anche Il Popolano sarebbe stato d'accordo con loro, se solo non avesse da poco ricevuto una lettera dal fratello, che lo informava proprio dell'arrivo del morbo a Forlì, rincarando la dose di brutte notizie aggiungendo che forse le porte della città sarebbero presto state chiuse, prima che il papa o chi per esso spiccasse un ordine ufficiale.

"Devi mangiare qualcosa, Lorenzo. È da ieri che non tocchi cibo..." disse piano Semiramide, allungando le dita verso quelle del marito.

Anche se la tavola era imbandita in modo abbastanza ricco, solo la donna stava spiluccando qualche cosa, mentre il Medici era assorto nei suoi pensieri, una mano sulla bocca e l'altra stesa accanto al piatto, immobile.

La moglie del Popolano era molto preoccupata per lui. Da quando erano tornati dalle Fiandre, Lorenzo le sembrava cambiato. Non era stata una cosa eclatante, ma un mutamento lento e forse inesorabile.

Dall'essere un uomo molto accomodante e spiritoso – quando ce n'era l'occasione – adesso suo marito si era fatto taciturno, scontroso e molto pessimista.

Anche il suo fisico stava risentendo delle sue preoccupazioni e il suo profilo, da sempre ben pasciuto, si stava pian piano riducendo, mentre nelle sua guance si formavano piccoli solchi di tormento che gli conferivano non più un'aria vagamente imbronciata, ma nettamente sofferente.

A peggiorare ulteriormente la situazione, c'era il fatto che il Popolano più vecchio pareva non più intenzionato a condividere appieno la proprie insicurezze con la moglie, e questo, Semiramide, lo stava patendo moltissimo.

"Non ho fame." disse seccamente Lorenzo, spostando un po' il piatto da davanti a sé e facendo un piccolo sbuffo.

"È per Giovanni?" chiese finalmente Semiramide, che si stava arrovellando da giorni per capire quale fosse il vero cruccio dell'uomo che le stava accanto.

Il Medici non disse nulla, ma il modo in cui sollevò appena il sopracciglio lasciò intendere alla moglie di aver fatto centro.

"Ne abbiamo già parlato – provò a dire la donna, con calma, dopo un sorso di vino – e la Sforza è una moglie come un'altra..."

"No che non la è." si intestardì Lorenzo, alzandosi da tavola e andando vicino al camino.

Dalle finestre che davano sulla strada si sentiva lo scrosciare incessante della pioggia e Semiramide, che aveva sempre amato quel suono, improvvisamente si trovò a detestarlo.

Asciugandosi gli angoli della bocca con la punta delle dita, come a prendere tempo, la donna sospirò e infine raggiunse il marito davanti al fuoco: "So che è pericoloso essere sposati a una donna del genere, ma Giovanni ha scelto e non possiamo fare altro che tentare di aiutare lui e la sposa che ha voluto per sé. Lo Stato della Tigre è piccolo, ma..."

"Una vedova, con... Quanti? Sei, sette figli? E poi è anche più vecchia di lui. E chissà con quanti lo sta già tradendo..." fece imperterrito Lorenzo, andando avanti con il suo pensiero, ma questa volta a voce alta: "Una belva, che cercava solo un pollo da spennare. Non è strano, che tra tutti gli amanti che ha avuto, abbia sposato proprio mio fratello? Proprio l'unico che era pieno di soldi?"

Semiramide capiva il punto di vista del marito, ma confidava troppo nel cognato per poter anche solo pensare che fosse caduto in una trappola, come invece credeva Lorenzo.

"Se parli così – gli disse, con una certa durezza – offendi tuo fratello, non quella donna."

Il Medici si lasciò andare a un cenno di stizza e poi, prendendo l'ultima lettera di Giovanni dall'interno del farsetto, la diede alla moglie: "Leggi. Dimmi se un uomo sano di mente può ragionare a questo modo."

Semiramide prese la missiva e mentre l'apriva, il marito si avviò verso la porta, borbottando tra sé, come un vecchio brontolone: "E ci mancava anche Piero... Con quella buffonata fuori dalla Porta Romana... Un Medici, sotto la pioggia per ore come un randagio... Come se non ci stessero già ridendo tutti dietro..."

La donna non badò alle parole farfugliate dal marito e si rimise seduta a tavola, per leggere le parole del cognato.

Giovanni spiegava dell'arrivo quasi certo della peste a Forlì e motivava il perché di una possibile chiusura delle porte. Spiegava che lui sarebbe rimasto dentro le mura per poter stare accanto a Caterina. Chiudeva assicurando che si sarebbe fatto sentire appena possibile e pregava il fratello di non stare in ansia.

'La mia salute è ottima – aveva scribacchiato in fondo, come ultima rassicurazione – non avete da stare in pensiero, nessuno di voi. L'unica cosa che potrebbe portarmi alla morte, sarebbe allontanarmi da lei.'

Semiramide ripiegò la lettera e ricominciò a mangiare in silenzio. Lorenzo doveva essere cieco, per non capire. Giovanni era solo innamorato, non uno sciocco, né un pazzo.

Con un mezzo sorriso triste, la donna si trovò a ripensare a quando suo marito le aveva chiesto la mano e ai primi tempi del loro matrimonio. Anche loro erano stati innamorati con la stessa intensità, sfidando tutto quello che si metteva sul loro cammino.

Giovanni aveva avuto loro come esempio. In pratica, era cresciuto nelle loro casa, era diventato un uomo sotto i loro occhi, e da loro aveva imparato cos'era un matrimonio stabile. Non aver potuto conoscere sua madre, e aver perso il padre molto presto, erano sicuramente stati forti vuoti per lui, ma Lorenzo e Semiramide avevano fatto del loro meglio per supplirvi.

Se Giovanni era pronto a ipotecare tutto se stesso per quella donna, doveva per forza significare che era certo di aver fatto la scelta giusta. Aveva avuto un insegnamento troppo preciso e luminoso, per fare un errore tanto grossolano.

Se solo Lorenzo si fosse fermato un momento a riflettere e ricordare...


 Caterina guardò l'ultima porta che veniva chiusa e quando si udì il tonfo sordo finale, avvertì una piccola scossa anche dentro di sé.

Il sole stava appena sorgendo all'orizzonte e la città era come cristallizzata nel gelo del mattino, mentre gli ultimi pochi fortunati che avevano avuto l'autorizzazione a lasciare Forlì si allontanavano, voltando le spalle alla cinta muraria.

"Avanti..." fece la Contessa, non appena lo spettacolo fu concluso: "Abbiamo ancora delle case da controllare e poi bisogna cominciare a organizzare il punto di raccolta."

Accanto a lei, oltre a Bianca, c'erano come figure sempre presenti sia il suo medico personale, sia Giovanni, che pareva intenzionato a non risparmiarsi in alcun modo.

Per tutta la mattina, infatti, aiutò la moglie in tutti i modi, collaborando con piacere anche con la giovane Riario, che fin da subito si dimostrò di buona volontà e tutt'altro che impressionabile.

"I corpi non possono essere sepolti..." spiegò a un certo punto la Tigre, mentre lei e gli altri si riposavano un istante nei pressi del quartiere militare: "Vanno bruciati."

"Perché?" chiese Bianca, ricordandosi come i corpi dell'ultima epidemia di febbri fossero stati in parte seppelliti, anche se molto fuori le mura.

Caterina incrociò un momento gli occhi blu della figlia e in quel mentre il pensiero di entrambe corse a Livio, morto, ormai, da quasi un anno.

Con un nodo alla gola, la donna cercò di ricacciare la memoria in fondo alla coscienza e rispose senza esitazione: "Prima di tutto perché è quasi impossibile trovare qualcuno che accetti di seppellire un appestato. Nemmeno i monatti a volte lo vogliono fare. E poi perché è più sicuro."

"Però è una cosa da pagani..." obiettò, senza troppa convinzione, la giovane Riario: "Gli antichi bruciavano i cadavere... I cristiani no..."

"Bruciare i corpi è più sicuro. Se al papa non sta bene, venga qui con una pala a fare da sé il lavoro sporco." sibilò la Sforza, esprimendo con così tanta franchezza il suo pensiero che Bianca non osò aggiungere altro.

"Per il momento, comunque, non ci sono molti morti." fece il medico, appoggiandosi al muro di una casa, con fare stanco: "Solo alcuni ormai anziani..."

"Per ora siamo stati fortunati – convenne Caterina, senza riuscire a condividere l'ottimismo del dottore – ma dobbiamo essere pronti a tutto. Per favore, vai a dire al Magistrato di requisire la legna in eccesso. Che ogni casa abbia lo stretto indispensabile per riscaldarsi. Tutto il resto servirà per bruciare i corpi."

Giovanni, che era il destinatario di quell'ordine, non rispose. Sembrava immerso nei suoi pensieri e alla moglie non parve inverosimile credere che non l'avesse nemmeno sentita.

"Posso farlo io." si propose Bianca, prima che la Contessa potesse risvegliare il Medici dal suo momento di isolamento.

La Tigre si accigliò e poi lanciò uno sguardo significativo al dottore, che, dopo essersi passato la pezza umida di olii sul naso, disse: "Lasciate che vi accompagni, madonna Bianca."

E così la ragazzina salutò in fretta la madre e andò assieme al medico verso il centro della città, alla ricerca del Magistrato.

"Cosa c'è?" chiese piano Caterina, avvicinandosi un po' di più al marito.

Alle loro spalle, un gruppetto di soldati stava rientrando nei baraccamenti. Dopo un'attenta discussine, la Sforza aveva deciso di lasciare l'esercito in città, non potendo sperare di trovare alle truppe una sistemazione sicura e sostenibile in campagna, ma aveva rinunciato a sfruttare i soldati come aiuto nel corso dell'epidemia.

Doveva tenerli il più possibile al sicuro. Ci aveva messo mesi, anzi, anni, a creare il suo esercito e dunque non poteva permettere alla peste di decimarglielo.

Giovanni, che in effetti era più pallido del solito e da un paio d'ore s'era messo a parlare molto poco, sfuggendo in modo inusuale i compiti più faticosi, sollevò gli occhi chiari verso la moglie e poi scosse la testa: "Non è niente. Forse sono solo un po' stanco."

"Vai alla rocca. Riposati. Ci penso io, qui." gli disse subito la Leonessa, appoggiandogli una mano sulla spalla, sentendosi un po' in colpa per avergli permesso quello sforzo, visto il precario equilibrio della sua salute: "Ci vediamo stasera."

Il Medici fece un lungo sospiro e poi, guardandosi appena attorno, represse l'istinto di rifiutare quella mano tesa e accettò: "Sì, ci vediamo stasera."

Caterina rimase di sasso, nel vedere il marito accettare. Se lo faceva, significava che davvero non ce la faceva più.

"Fatti preparare qualcosa di caldo." gli sussurrò, accarezzandogli la guancia coperta da un sottile strato di barba: "E se dovessi non star bene, mandami subito a chiamare."

Il Popolano annuì e poi, dopo aver controllato – seppur superficialmente – che nessuno li stesse osservando, si piegò verso di lei e le diede un rapido bacio sulle labbra: "Non fare tardi."

La Contessa sorrise e ribatté: "Pensa a rimetterti, che a quello che devo fare io ci penso io."

Poi, dopo un ultimo veloce saluto, Giovanni si incamminò verso la rocca. La moglie lo osservò con attenzione e le parve che non zoppicasse più del solito.

Per un vago istante fu attraversata dall'idea che potesse aver preso anche lui la peste, ma abbandonò subito quell'ipotesi, bollandola come assurda. Quasi per certo la tensione di quei giorni, il mangiare in modo sregolato e la fatica fisica avevano messo alla prova il corpo del fiorentino, nulla di più.


 Juan Lòpez appoggiò il documento davanti agli occhi di Cesare Borja. Questi, lisciandosi la barba scura che si stava lasciando crescere sul mento in quei giorni, si mise a leggere.

Se non avesse saputo che si trattava di un falso, non l'avrebbe mai capito da solo. Tutto, dalla firma in calce al tipo di foglio usato, tutto quanto era semplicemente perfetto.

"Avrete il vostro denaro." annuì soddisfatto il figlio del papa, sorridendo al Cardinale che era in attesa della sua reazione.

"Siete soddisfatto del lavoro?" chiese Lòpez, con un inchino ossequioso.

"Molto soddisfatto." rimarcò Cesare, battendo le mani l'una nell'altra e lasciandosi scappare una risatina eccitata: "Non ci resta che far partire la scomunica alla volta di Firenze."

"Avete già voi un messaggero che sia di fiducia? Da quel che ho capito, non volete che il Santo Padre venga a sapere di questa vostra iniziativa..." fece il Cardinale, usando un tono volutamente molto pacato.

"So già come spedire questo documento, non abbiate paura." fece il Borja, sorprendendosi del fare magistrale con cui Lòpez aveva appena cercato di spillargli altri soldi: "Chiudete la bolla come Dio comanda e poi consegnatemela una volta pronta. Vi darò il vostro compenso allora."

Il Cardinale incassò con grazia il mezzo colpo, vedendo sfumare l'ipotesi di aggiungere qualche zero al suo conto, e poi riprese il documento e lasciò gli appartamenti del figlio del papa.

Rimasto solo, Cesare non sopportò a lungo la compagnia di se stesso e uscì dal palazzo.

Quella sera, come faceva quasi sempre ormai, non indossava abiti da prete, ma un giubbone di media fattura e brache di cuoio che lo proteggevano molto bene dall'umidità. Aveva sentito dire che in Toscana diluviava, mentre in Romagna la siccità improvvisa stava facendo galoppare la peste.

In Vaticano, invece, erano rimasti solo il freddo e l'aria bassa che ci si sarebbe attesi di più nelle pianure del nord, che non a tanta poca distanza dal mare.

Scegliendosi un paio di uomini come scorta, il Borja andò per Roma in cerca di compagnia e la trovò senza sforzo. La notte buia e silenziosa, si animava sempre con odori e colori tutti suoi, non appena si lasciavano le lussuose abitazioni dei prelati.

Mentre, seduto su una poltrona un po' rovinata, in una delle case che stavano affacciate sul Tevere, aspettava che uno dei suoi uomini gli cercasse una donna, una di quelle più richieste di Roma, Cesare si mise a rimuginare.

Non solo pensò a Savonarola e a tutto quello che la scomunica avrebbe portato con sé, alle reazioni di suo padre e a quelle della curia intera, pensò anche a questioni molto più personali, che coprivano un territorio molto vasto, che da Pesaro arrivava a Napoli e fino in Spagna.

Con un sospiro spezzato, la sua mente tornò alla lettera che il suo amico fraterno Michelotto gli aveva fatto recapitare pochi giorni addietro. Ci aveva messo un'eternità a rispondergli, e l'unica cosa che era stato capace di scrivergli era che non poteva lasciare casa sua, non al momento, per lo meno.

'Forse tra qualche mese – aveva scritto Miguel de Corella – ma solo se mi dirai che non per te non c'è di meglio da sperare.'

Come sempre, Cesare aveva sorriso al modo assoluto di esprimersi dell'amico, ma aveva anche rivissuto il rapporto stretto che avevano instaurato sui banchi di studio. Non aveva mai capito quanto oltre andasse l'affetto di Michelotto, ma quale che fosse il motivo che lo aveva reso così leale e fedele, il Borja sapeva di aver bisogno di un uomo come lui accanto.

"Dice che è pronta a ricevervi..." fece una delle guardie che il figlio di Alessandro VI s'era portato appresso.

Cesare si alzò dalla poltrona e si diresse verso la camera dove la donna lo riceveva sempre, ma, appena prima di sparire dietro al legno scuro, guardò di traverso il suo scagnozzo.

Ora che ci pensava, era rimasto a lungo a contrattare con quella sgualdrina. E gli sembrava pure troppo accaldato, per una sera tanto fredda.

"Io non mangio piatti riscaldati." gli sibilò, prendendolo per il collo e spingendolo contro il muro, in modo tanto repentino da abbattere le difese di quel soldato di norma così pronto nel reagire.

"Però mangiate senza problemi nel piatto degli altri..." fece la donna, uscendo dalla camera con addosso solo una leggera sottoveste.

A quella voce, il Borja parve placarsi un po', ma tenne salda la presa sul soldato: "Posso accettarlo, se gli altri hanno mangiato molto prima di me." concesse, guardandola con la coda dell'occhio: "Un piatto tanto buono è inverosimile che sia di un solo commensale. Sono un uomo molto generoso, io... Tuttavia..." lasciò andare di scatto la guardia del corpo, che per poco non cadde in terra: "Non sopporto di mettermi a mangiare qualcosa che altri hanno appena assaggiato..."

Cesare stava per estrarre il lungo stiletto che portava al fianco dalla fodera, quando la donna gli fermò il braccio con un gesto suadente: "Quante storie... E poi il tuo soldato non mi ha neanche sfiorata."

Il Borja non sapeva se crederle o meno, ma era così impaziente di averla, che passò anche sopra al proprio orgoglio e, dando un buffetto alla guardia – il cui volto aveva perso ogni segno di vitalità per colpa della paura – gli ordinò: "Stai fuori dai piedi, allora. Aspetta giù in strada."


 Dopo essere rientrato da solo a Ravaldino, Giovanni era subito andato a stendersi a letto. Seguire le norme igieniche che la moglie aveva imposto a tutti per poter accedere all'area della rocca era stata una mezza tortura, ma l'uomo aveva fatto tutto quello che doveva.

Quando finalmente era riuscito a stendersi a letto, certo di essere completamente solo, si era lasciato andare a smorfie di sofferenza e gemiti incontrollati. Non solo le ginocchia e le caviglie gli dolevano più solito, ma un dolore mai provato, urente e incoercibile, gli aveva preso la radice di entrambi gli alluci e sembrava estendersi, a tratti, per tutto il corpo, come delle ondate di calore.

In più, a sommarsi al male agli arti inferiori, erano arrivati dei dolori colici all'addome che Giovanni non ricordava di aver mai provato.

Era rimasto sveglio a contorcersi tra le lenzuola quasi fino a sera. Quando Caterina era arrivata, Giovanni si era già in parte rimesso, ma sembrava molto provato, tanto che la donna comprese subito che doveva essere stato molto male, nelle ultime ore.

"Davvero, solo un po' di dolore, niente di più..." cercò di dire il Popolano, tirandosi un po' su a sedere, benché quel semplice movimento fosse stato già sufficiente a farlo sudare freddo: "Io..."

Caterina gli si sedette accanto, sul letto, e lo scrutò attentamente in volto alla luce della candela che aveva appoggiato sulla cassapanca vicina. Lesse la paura malcelata nel suo sguardo e capì che la situazione doveva essere più grave di quanto il fiorentino volesse far credere.

"Vado a chiamare il medico di corte..." fece la donna, cercando di alzarsi.

Il marito, però, le afferrò la mano e strinse con forza: "Ti prego, no. Mi sta passando." mentre parlava, una smorfia gli storse le labbra e una nuova fitta gli prese di traverso la pancia: "Per favore... Ha già tanto da fare e non mi dirà nulla di nuovo."

La Sforza, però, insistette e alla fine Giovanni non poté evitare di lasciarsi ricadere sul cuscino e concederle di fare quello che voleva.


 Agostino Barbarigo non sapeva dire che cosa lo stesse trattenendo dal mandare a quel paese Pandolfo Malatesta.

Era ormai notte e quell'insulso riminese non la smetteva di blaterare nemmeno per un momento.

Il Doge aveva accettato quell'incontro solo per dimostrare la sua buona disposizione verso il Malatesta e non compromettere l'alleanza con Rimini, ma quando era troppo era troppo.

Se non fosse stato per quello che Domenico Trevisan gli aveva detto circa Faenza, non ci avrebbe pensato un momento a dare il ben servito al Pandolfaccio.

"E dunque – stava dicendo il signore di Rimini, sporgendosi in avanti, per attirare l'attenzione di Barbarigo, ormai stravaccato sul divano rosso, troppo stanco perfino per stare composto – se voi voleste concedere una condotta per Carlo, il mio fratellastro..."

Agostino rivisitò le parole di Trevisan che qualche giorno addietro gli aveva ribadito che Niccolò Castagnino, il tutore legale e reggente di Astorre Manfredi, aveva dato chiari segni di connivenza con Ercole Este. Un avvicinamento a Ferrara equivaleva, in quel momento, a una distensione con Milano e, per associazione, a una rinnovata coesione con la Sforza di Forlì. E la Sforza di Forlì stava pendendo un po' troppo verso Firenze.

Il Doge, però, non sapeva che fare. I suoi collaboratori gli avevano consigliato il pugno duro: levare gli ottomila ducati annui che Venezia versava al Manfredi a mo' di condotta, sì da punirlo per le tendenze poco chiare di Castagnino.

Però, facendo così, Barbarigo temeva in una controreazione violenta o almeno sconsiderata e perdere Faenza era l'ultima cosa che voleva, ora che Imola e Forlì parevano impossibili da comprare.

"Mio fratello potrebbe essere un buon servo vostro e..." stava ancora enunciando il Pandolfaccio, con voce sicura, convinto che il Doge pendesse dalle sue labbra.

"State tirando troppo la corda." lo zittì alla fine Agostino, pensando più a Castagnino che non al suo interlocutore reale: "Siete già una spesa così, senza che chiediate soldi anche per vostro fratello."

Il Malatesta provò debolmente a ribattere, ma l'altro fu impassibile e, agitando una mano per chiamare a sé uno schiavetto che accompagnasse fuori l'ospite, disse: "Buona notte. E per favore, abbiate la compiacenza di non nominarmi più condotte e fratelli, per carità di Dio."


 "Sembra la malattia della pietra..." disse in un sussurro il dottore, raggiungendo Caterina che aspettava nel corridoio.

Era stato Giovanni a chiederle di uscire durante la visita e la donna aveva fatto quello che lui voleva. Aveva apprezzato fin da subito il suo essere orgoglioso, dunque non se la sentiva di forzarlo altrimenti.

"Quindi potrebbe rimettersi anche da solo." costatò la Tigre, appoggiandosi con una mano al davanzale della finestra che dava sul cortile d'addestramento.

Il medico, su cui occhi la torcia a muro gettava un'ombra sinistra, sporse un po' in fuori il mento, guardando in terra: "Sì, da quello sì... Gli ho già detto di bere molta acqua e poi vi darò un elenco di cose da fargli prendere, però..."

"Però?" chiese la Contessa, sulle spine.

Il dottore ci mise qualche secondo, ma poi si risolse a dire: "Questa è solo una delle conseguenze del suo male, mia signora. E il fatto che vi sia già arrivato, non è certo un buon segno."

Caterina restò immobile, la mano sulla pietra della finestra, che sembrava una lastra di ghiaccio sotto alle sue dita. Sapeva che Giovanni era pessimista, riguardo al suo futuro e più di una volta da che erano sposati – ed erano sposati davvero da poco – quando lui la credeva addormentata, lei lo aveva osservato e l'aveva visto insonne, preoccupato, a volte perfino incapace di starsene coricato a letto, tanto era teso.

La Leonessa deglutì, un po' apprezzando e un po' detestando il prolungato silenzio del medico. Se da un lato le stava dando del tempo per capire meglio le sue parole, dall'altro, il fatto che le servisse del tempo per capire, significava che la situazione era davvero grave.

"Non è detto che sia..." cominciò a dire la Contessa, con un filo di voce.

"Potrebbe riprendersi bene, per ora." convenne subito il dottore, con sincerità: "Anzi, sono convinto che questa volta potrà farlo anche in fretta. Tenetelo a riposo, mi raccomando."

"Però la prossima volta che si aggraverà potrebbe essere il colpo finale." si forzò a dire Caterina.

L'uomo non comprese l'apparente rudezza con cui la sua signora aveva appena parlato, però, come in altre occasioni, fece del suo meglio per non dare a vedere la sua perplessità dinnanzi ai suoi modi e cercò di suonare pratico, ma anche ottimista: "Non dobbiamo pensare sempre al peggio. Messer Medici è giovane e ha una fibra notevole. Aiutatelo come potete, stategli vicino. È l'unica cosa che potete fare per lui, ma è una cosa importante."

La Tigre strinse i denti. Involontariamente, come sempre aveva i nervi all'erta ed era pronta a cogliere le sfumature nelle parole di chi la circondava. Con quelle poche frasi il dottore le stava dicendo che sapeva benissimo che tipo di legame ci fosse tra lei e Giovanni. E, stranamente, Caterina provò una sensazione piacevole, nel sentirlo parlare a quel modo.

"Gli starò vicino." promise: "Se lui me lo permetterà."

"Ve lo permetterà, ne sono certo." sorrise a stento il medico, chiedendosi se non stesse esagerando con quell'inciso.

Mentre lo visitava, l'ambasciatore di Firenze gli aveva fatto promettere di non dire alla Sforza quanto fosse instabile la sua condizione. Gli aveva fatto promettere di non allarmarla, di essere moderatamente ottimista. Gli aveva fatto promettere di non fare parola della morte atroce a cui probabilmente sarebbe andato incontro.

"Come mio cugino, il Magnifico..." aveva sentenziato il Popolano, mentre il medico gli tastava l'addome, facendolo sussultare dal male: "In un letto che puzza di morte, con la testa che si spegne poco a poco..."

"Vostro marito non è un caso perso – riprese il dottore, cercando di convincersi per primo che fosse davvero così – con un po' di attenzione, potrebbe vivere più del previsto."

Caterina incrinò le labbra e, ben lungi dal sentirsela di dire al suo fidato servitore che quelle parole erano una coltellata peggiore di quelle precedenti, gli diede un colpetto sulle spalle e disse, con un tono più leggero: "Fatemi un elenco di quello che gli devo preparare per la malattia della pietra."

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