Se io potessi scrivere tutto...

By RebeccaValverde

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(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Du... More

Capitolo 250: nobis,cum semel occidit brevis lux,nox est perpetua una dormienda
Capitolo251:Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male
Capitolo 252: Per me si va ne la città dolente...
Capitolo 253: ...per me si va ne l'etterno dolore...
Capitolo 254: ...per me si va tra la perduta gente.
Capitolo 255: Giustizia mosse il mio alto fattore...
Capitolo 256: ...fecemi la divina potestate...
Capitolo 257: ...la somma sapienza...
Capitolo 258: ...e 'l primo amore.
Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...
Capitolo 260: ...se non etterne...
Capitolo 261: ...e io etterno duro.
Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
Capitolo 263: Non uccidere.
Capitolo 264: Settanta volte sette.
Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris
Capitolo266:Impossibile non sia cattivo chi un irrimediabile dramma ha abbattuto
Capitolo 267:ma se i tuoi occhi sono cattivi, sarai totalmente nelle tenebre.
Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.
Capitolo 269: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.
Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.
Capitolo 271: Cuius vulturis hoc erit cadaver?
Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.
Capitolo 273: Ma voi siate astuti come i serpenti e puri come le colombe.
Capitolo 274: Io stesso ero divenuto per me un grande enigma
Capitolo 275: Errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat
Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi
Capitolo 277: Relata refero
Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.
Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur
Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.
Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!
Capitolo 282: Obtorto collo
Capitolo 283: Fiducia
Capitolo 284: Superbiam iracundi oderunt, prudentes irrident
Capitolo 285: Anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo
Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze
Capitolo 287: Potius sero quam nunquam
Capitolo 288: Sii pronto nell'ascoltare, lento nel proferire risposta
Capitolo 289: Ducis in consilio posita est virtus militum
Capitolo 290: Chi fugge dalla battaglia può combattere un'altra volta
Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini
Capitolo 292: Tutti torniamo a la grande madre antica
Capitolo 293: Hodie mihi, cras tibi
Capitolo 294: Prendere le misure
Capitolo 295: Il papa ha dieci anime
Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...
Capitolo 297: Flectamur facile, ne frangamur
Capitolo 298: Amore cerca di medicare l'umana natura
Capitolo 299: E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta.
Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.
Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere
Capitolo 303: Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!
Capitolo 304: Simone Ridolfi
Capitolo 305: A caccia
Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico
Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis
Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.
Capitolo 309: Nulli necesse est felicitatem cursu sequi
Capitolo 310: Non semper temeritas est felix
Capitolo 311: Panem et circenses
Capitolo 312: Neminem cito accusaveris, neminem cito laudaveris
Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram
Capitolo 314: Cras ingens iterabimus aequor
Capitolo 315: Dove ci sono troppe mani, usa la chiave
Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent
Capitolo 317: Dove men si sa, più si sospetta
Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset
Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.
Capitolo 320: Ingégnati, se puoi, d'esser palese.
Capitolo 321: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Capitolo 322: Ama chi t'ama, e accostati a chi ti s'appressa
Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est
Capitolo 324: Tu ne cedes malis, sed contra audentior ito
Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia
Capitolo 326: Non tramonti il sole sopra la vostra ira.
Capitolo 327: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido.
Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!
Cap. 330: Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade
Capitolo 331: Necessitas ultimum et maximum telum est
Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille
Capitolo 333: O luce candidiore nota!
Capitolo 334: Il nuovo Governatore
Capitolo 335: Très braves et vaillans capitaines
Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.
Capitolo 337: Martedì Grasso
Capitolo 338: Il Falò delle Vanità
Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni
Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata
Capitolo 342: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore
Capitolo 343: De fumo ad flammam
Capitolo 344: Quis legem det amantibus?
Capitolo 345: Maior lex amor est sibi
Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai
Capitolo 347: È meglio sposarsi che ardere
Capitolo 348: Felix qui quod amat defendere fortiter audet
Capitolo 349: Unde fames homini vetitorum tanta ciborum?
Capitolo 350: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli
Capitolo 352: Porte chiuse
Capitolo 353: Nil sine magno vita labore dedit mortalibus
Capitolo 354: Eripere telum, non dare irato decet.
Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.
Capitolo 356: Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio
Capitolo 357: L'Amor, che m'è guerrero ed enemico...
Capitolo 358: 14 giugno 1497
Capitolo 359: Permitte divis cetera
Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.
Capitolo 361: Ride, si sapis.
Capitolo 362: Sangue
Capitolo 363: Heu, coscientia animi gravi est servitus!
C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...
Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.
Capitolo 366: Amor gignit amorem
Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.
Capitolo 368: Ognuno dovrebbe fare il mestiere che sa
Capitolo 369: Tacitulus Taxim
Capitolo 370: Dica pur chi mal vuol dire, noi faremo e voi direte.
Capitolo 371: Noli me tangere
Capitolo 372: Ipsa sua melior fama
Capitolo 373: Ché voler ciò udire è bassa voglia.
Capitolo 374: Fare del proprio meglio
Capitolo 375: Siamo alle porte co' sassi...
Cap376:Chi non ha ottenuto la fiducia del sovrano, non agisce come suo generale
Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent
Capitolo 378: Absit iniuria verbis
Capitolo 379: Chi è diffamato, è mezzo impiccato
Capitolo 380: Fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est
Capitolo 381: Virgo Intacta
Capitolo 382: Un anno esatto
Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum
Capitolo 384: Ribellione
Capitolo 385: Cursus honorum
Capitolo 386: Fame
Capitolo 387: Notissimum quodque malum maxime tolerabile
Capitolo 388: Roma locuta, causa finita
Capitolo 389: Carpe diem
Capitolo 390: La prova del fuoco
Capitolo 391: Che c'è di più dolce del miele? Che c'è di più forte del leone?
Capitolo 392: Nihil necesse est, undique enim ad inferos tantundem viae est
Capitolo 393: Ci vuole pazienza
Capitolo 394: Doppia caccia
Capitolo 395: Omnes eodem cogimur
Capitolo 396: Il titol di più onore è padre e difensore
Capitolo 397: Io son l'Occasione, a pochi nota...
Capitolo 398: 23 maggio 1498
Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra
Capitolo 400: Dichiarazione di guerra
Capitolo 401: Mi basta bene l'animo de difendermi
Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio
Capitolo 403: Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela
Capitolo 404: La via dello andare all'Inferno era facile...
Capitolo 405: ...poiché si andava allo ingiù e a occhi chiusi.
Capitolo 406: 21 giugno 1498
Capitolo 407: Miser Catulle, desinas ineptire...
Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.
Capitolo 409: Incipe, parve puer...
Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae
Capitolo 411: Fame da lupi
C412:Da mi basia mille,deinde centum,dein mille altera,dein secunda centum...
Capitolo 413: Acqua lontana non spegne il fuoco
Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu
Capitolo 415: Fratelli
Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum
Capitolo 417: Chi dice che gli è cosa dura l'aspettare, dice el vero.
Capitolo 418: Valiceno
Capitolo 419: Stillicidi casus lapidem cavat
C420: Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato...
Capitolo 421: Tu quidem macte virtute diligentiaque esto
Capitolo 422: Deos fortioribus adesse
Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...
Capitolo 424: Tristis eris si solus eris
Capitolo 425: Hannibal ad portas
Capitolo 426: Arduo essere buono
Capitolo 427: Tramontata è la Luna, tramontate le Pleiadi...
Capitolo 428: È a mezzo la notte...
Capitolo 429: ...trascorre il tempo; io dormo sola.
Capitolo 430: Sit tibi terra levis
Capitolo 431: Contro i tristi tutto il mondo è armato
Capitolo 432: Ordini
Capitolo 433: Et so quello che dico.
Capitolo 434: Nessuno ama l'uomo che porta cattive notizie
Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia
Capitolo 436: Odi et amo
Capitolo 437: Ambasciator non porta pena
Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame
Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis
Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male
Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.
Capitolo 442: Non fuit in solo Roma peracta die.
Capitolo 443: Il respecto, suspecto, et despecto.
Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores
C445: Perché non si dica mai che uno straniero è stato nostro comandante.
Capitolo 446: Campane a martello
C447:Ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere...
Capitolo 448: Non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina.
Capitolo 449: Ottaviano Manfredi

Capitolo 328: Sera nimis vita est crastina

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By RebeccaValverde

Giovanni si svegliò lentamente, la testa un po' confusa e gli occhi che faticavano ad abituarsi alla luce riverberante che entrava dalla finestra.

Doveva essere già piena mattina e probabilmente quel bagliore insolito era dovuto a tutta la neve che era caduta durante la notte e che ora faceva da specchio al sole dicembrino.

Il Popolano si tirò su a fatica, scoprendosi ancora vestito come la sera precedente, e con tutte le articolazioni dolenti per il freddo preso dormendo scoperto.

Mentre cominciava a cambiarsi, Giovanni ricordò di colpo tutto quello che era successo dopo che era uscito dalla sala dei banchetti. Chissà come mai, nei primi momenti dopo il risveglio, non aveva avuto nessuna memoria di quella notte.

Ma adesso ricordava i baci, risentiva le mani calde e precise di Caterina sulla sua pelle, e rivedeva i suoi occhi che lo fissavano alla luce delle torce.

Si prese un momento per riflettere. Aveva agito d'impulso, la notte prima, senza ragionare su cosa sarebbe accaduto dopo.

Cosa avrebbe dovuto fare, di preciso, quando l'avesse rivista? Che cosa si sarebbe aspettata, lei, dopo quello che era successo? Se n'era già pentita, oppure, come lui, desiderava solo averne di più?

Quando ebbe finito di vestirsi, il Medici uscì dalla sua camera e, colto da un'ispirazione improvvisa, provò a bussare alla porta della Tigre.

Non rispose nessuno. Visto che doveva già essere abbastanza tardi, il fiorentino non si impensierì più di tanto e provò a cercarla in giro per la rocca.

Senza badare al fatto che avrebbe potuto suonare troppo sfacciato, quando si imbatté nel castellano Feo – che quella mattina sfoggiava due pesanti occhiaie e continuava a sbadigliare –l'ambasciatore domandò: "Sapete dove posso trovare la Contessa?"

Cesare masticò a vuoto un paio di volte, già pentito di essere rimasto a sentire i musici fino alla fine quella notte, sottraendosi importanti ore di sonno, e rispose: "Sì, è uscita molto presto, poco prima dell'alba."

"E dov'è andata?" chiese Giovanni, sulle spine, già pronto a saltare in sella e raggiungerla.

"Nei boschi, credo, ma non mi ha detto dove di preciso. Magari nella sua nuova riserva." fece il castellano, stringendo un po' gli occhi e fissando le iridi chiare del Popolano: "Fossi in voi, comunque, non proverei a raggiungerla."

Il Medici deglutì rumorosamente, chiedendosi se quella frase nascondesse qualche velata allusione, ma trovò comunque lo spirito di indagare: "Perché mi dite così?"

"Perché oggi la Contessa è di pessimo umore. Non la vedevo così da parecchio." rispose il castellano, facendosi pensieroso: "Forse non c'entra nulla, ma per come la conosco, può essere che sia perché sono vent'anni oggi che è stato assassinato suo padre, il Duca Sforza..."

Giovanni si morse il labbro, ragionando su quello che gli era appena stato detto e poi provò a chiedere, con poca convinzione: "Sapete quando rientrerà?"

Il castellano, a cui la Contessa aveva detto che forse sarebbe rimasta a Forlimpopoli un paio di giorni, sollevò le spalle e preferì restare sul vago: "E chi può dirlo."

Il Medici lo ringraziò comunque e poi, con un crampo allo stomaco che si era messo a torturarlo, preda dei suoi dubbi, si congedò e decise che quel giorno, dopo la Messa, si sarebbe dedicato alla corrispondenza.

L'affare del grano era quasi chiuso e voleva farlo andare in porto il prima possibile.


 "Avanti, muoviti." sibilò la guardia carceraria, prendendo Virginio di peso per le spalle.

L'uomo, ormai gracile e indebolito dalle infinite giornate passate nel buio della sua cella, tossì un paio di volte, ma poi camminò da solo.

Era, però, un po' intorpidito e anche la sua mente funzionava a fatica. Si era assopito e il risveglio brusco non aveva di certo aiutato.

Non ebbe nemmeno la prontezza di dire qualcosa a Paolo, o a suo figlio Gian Giordano, che stavano in un angolo, l'uno contro l'altro, nella speranza di scaldarsi un po' a vicenda.

"Da oggi tu starai qui." disse il soldato, portando l'Orsini in un altro ambiente, un po' più caldo e un po' più luminoso, per quanto altrettanto squallido e inospitale.

"Perché?" chiese Virginio, la voce arrochita dal lungo disuso, le labbra secche e nascoste dalla folta barba e dai baffi lunghi.

"Perché re Federico ha deciso così." disse il carceriere, richiudendo le sbarre alle sue spalle.

Il prigioniero si mise seduto contro il muro. La guardia stava ancora armeggiando con il mazzo di chiavi e sembrava indecisa se aggiungere qualcosa o meno.

Come se stesse recitando un copione ben studiato, il soldato a un certo punto si voltò e disse, a voce bassa: "Credo che vogliano farti cambiare idea. Se farai in modo di convincere tua sorella ad arrendersi, ti libereranno."

Virginio fece una mezza risata, che gli percosse il torace, facendolo tossire di nuovo e a quel punto la guardia fece un sospiro, scosse la testa e si allontanò.

L'Orsini chiuse i suoi occhietti azzurri e cercò di respirare lentamente. Non sapeva nemmeno dire che giorno fosse. L'unica cosa che capiva era che faceva freddo. Forse stava perfino nevicando, là fuori.

Appoggiò con un suono sordo la nuca alla parete e si rannicchiò con le ginocchia contro il petto.

Per un uomo della sua età, quella prigionia era troppo. Il freddo, la fame, il dubbio, anzi, ormai la certezza che non sarebbe più tornato a vedere la luce del sole... Era troppo, anche per uno come lui, che aveva sempre riso davanti alla morte.

Sentì lo squittire lontano di un topo, o forse di un ratto. Si guardò in giro, tanto affamato da pensare che anche la carne cruda di quel roditore sarebbe stata meglio di niente.

Però a Castel dell'Ovo anche i ratti sapevano che era meglio stare alla larga dalle celle, soprattutto in pieno inverno.

Infatti Virginio scorse il guizzo di un coda, ben oltre il confine della sua gabbia, e così non gli restò che chiudere di nuovo gli occhi e sforzarsi di pensare ad altro.

La sua mente lo portò indietro nel tempo, a quando era un uomo ancora nel pieno del vigore, capace di guidare un esercito alla vittoria.

Senza preavviso, mentre rimembrava colubrine fumanti e frecce che piovevano dall'alto, si rivide davanti il volto di Caterina Sforza.

Ripensò a quella donna, che quando avevano combattuto insieme aveva una ventina d'anni. La rivide in tutta la sua bellezza e ferocia e poi si ricordò di come l'aveva trovata cambiata, l'ultima volta che le aveva fatto incontrata, a Forlì non molto tempo prima che le uccidessero il suo giovane amante. Quella volta, era sempre bellissima, ma con un guizzo di vita in meno. Come tutti.

Con un sospiro dolente, Virginio deglutì e schioccò un paio di volta la lingua impaniata. Gli permettevano di bere pochissimo. Erano già quasi due giorni che non vedeva un goccio d'acqua.

Troppo stanco anche per disperarsi, l'Orsini si coricò, raggruppato su se stesso per non disperdere il calore e poi, lentamente, si addormentò. Il sonno, quello era l'unico balsamo per la sua anima,ormai.


 La notte stava scendendo su Forlimpopoli e Caterina teneva tra le mani un calice di vino caldo speziato, mentre fissava assorta il paesaggio innevato che si stagliava oltre la finestra della rocca.

"Non è stato imprudente, venire fin qui con questo tempo?" chiese Piero Landriani, andandosi a sedere davanti al fuoco, anch'egli portando con sé un bicchiere fumante.

La Tigre lasciò la finestra e si andò a sedere davanti a suo fratello. Era poco più che un ragazzo, ma sia il mento squadrato, sia la voce profonda lo facevano già sembrare un uomo.

La Contessa aveva deciso di passare un po' di tempo con lui principalmente per due motivi.

Prima di tutto, il giorno di Santo Stefano le aveva fatto venire un'immensa nostalgia del suo passato e di Milano. Ripensare alla morte di suo padre l'aveva portata a rimuginare anche su quella di Lucrezia e di Bianca e così si era ritrovata a ragionare su come suo fratello Piero non avesse potuto partecipare ai funerali di nessuna delle due.

E, secondariamente, i baci che aveva scambiato con Giovanni le avevano messo addosso una confusione tale che aveva sentito il bisogno di allontanarsi un momento da Ravaldino e ragionarci a mente lucida e senza distrazioni.

Qualche anno prima, non ci avrebbe pensato sopra nemmeno un istante e si sarebbe presa quel che voleva, ma dopo essersi scottata con Giacomo, non voleva più fare un errore simile.

Il Medici poteva anche essere un uomo di valore, gentile e istruito, molto diverso da quello che era stato Giacomo, ma la posta in palio per lei era la stessa.

E non poteva nemmeno sperare che quella con il fiorentino restasse solo un'avventura. Non poteva ignorare la forza di quello che aveva provato, nell'avvicinarsi a lui. Se fosse andata oltre, sarebbe davvero riuscita a darsi un freno e tirarsi indietro, quando necessario?

Conoscendosi, lo dubitava.

A voler proprio essere onesta, almeno con se stessa, poteva dire che la risposta era solo una: no.

"Non nevicava molto. E poi ne ho approfittato per cacciare un po', questa mattina. E poi era da troppo che non venivo qui a Forlimpopoli. Avevo voglia di rivederti e parlare un po'." rispose Caterina, alzando il calice verso il castellano: "In fondo siamo fratelli."

Piero sospirò e poi fissò gli occhi sul camino. Quando assumeva quelle espressioni assomigliava in tutto e per tutto a suo padre Gian Piero. La somiglianza con Lucrezia, invece, e quindi anche con Bianca, saltava fuori soprattutto quando rideva.

Da quando la Contessa era arrivata alla rocca di Forlimpopoli, in tarda mattinata, non l'aveva ancora visto ridere, tanto meno sorridere, neppure una volta.

"Mio padre mi ha scritto una lettera molto interessante..." disse a un certo punto Piero, sorbendo un po' di vino speziato e tornando a guardare la sorella: "Dice che quel Simone Ridolfi che s'è sposato con tua cognata ha risolto alcuni problemi che Tommaso aveva nel far quadrare i conti."

"Davvero?" chiese Caterina, accigliandosi.

Non capiva perché suo cognato non l'avesse avvisata subito. In fin dei conti, Ridolfi non aveva alcun titolo per immischiarsi negli affari di Stato.

"Ha trovato degli ammanchi e insieme a Tommaso è riuscito a sistemare la cosa, a quel che ho capito." precisò Piero, finendo in un sol sorso il suo calice.

La Tigre lasciò invece il suo sul tavolino accanto alla poltrona: "Potresti scrivere a tuo padre di mandare un resoconto dettagliato anche a me?"

"Nostro cognato Tommaso non ti ha scritto nulla?" chiese Piero, abbastanza interdetto.

Aveva parlato tanto per far conversazione, ma era certo che il Governatore di Imola avesse scritto a Caterina per dirle come aveva risolto il problema.

"Se l'avesse fatto, non te lo chiederei." fece notare la donna, irritandosi anche con il fratello.

Piero annuì e poi decise di parlare d'altro. Discussero della penuria di grano che affliggeva lo Stato e che, con l'andare dell'inverno, non avrebbe fatto altro che peggiorare.

Solo quando stavano per ritirarsi per la notte Piero trovò il coraggio di fare una domanda che gli grava sul cuore da mesi: "Nostra madre... Ha sofferto?" chiese, in un sussurro, affiancando la sorella, appena prima di lasciare il salottino.

Caterina sapeva che prima o poi o sua madre o sua sorella sarebbero state nominate. Sapeva per sentito dire che Piero era stato furioso, alla notizia della morte di Bianca, tanto che per giorni non aveva nemmeno voluto parlare con nessuno. Quando aveva saputo della morte della madre, invece, aveva reagito come se la cosa non lo toccasse. Forse, aveva pensato la Tigre, il dolore, sommatosi a quello della recente perdita di Bianca, era stato troppo e così Piero non era riuscito a fare altro che andare avanti, come stava cercando di fare lei.

"No, se n'è andata nel sonno." rispose la Contessa, rievocando con fatica il momento in cui Lucrezia era spirata.

Piero prese aria e poi chinò un attimo il capo, per concludere: "Meglio così."

Caterina, mossa da un improvviso istinto di protezione per quel fratello tanto più giovane di lei, gli appoggiò una mano sulla schiena e poi gli diede una breve pacca sulla spalla, a mo' di incoraggiamento.

Quando si trovò sola nella sua camera, la Contessa sentì la mente invasa da una serie di ricordi confusi. Le ultime parole scambiate con Piero, poi, le avevano dato il colpo finale.

Anche se per tutto il giorno non aveva fatto altro che ripensare alla morte cruenta e improvvisa di suo padre e – altrettanto spesso – a quello che era successo tra lei e Giovanni, quando si trovò sotto le spesse coperte che suo fratello le aveva fatto portare in camera per affrontare quella gelida notte di neve, la Tigre iniziò a ripensare anche a sua madre, sua sorella e suo figlio. E poi, sempre di più, a Giacomo.

Si girò e rigirò nel letto, chiedendosi come uscirne. Più si perdeva nella sua mente, più la solitudine la dilaniava e la faceva sentire indifesa e inutile.

Si mise a sedere sul letto, quasi decisa a cercare compagnia. In fondo c'erano molti uomini anche lì a Forlimpopoli.

Sparlavano già di lei, perché farsi problemi, se avessero sparlato ancora di più?

Poi, però, si ricordò ancora di Giovanni. Si sforzò di concentrarsi su di lui. Lentamente si rimise coricata e, facendo del suo meglio per non cedere di nuovo a se stessa, affondò il viso nel cuscino e si impose di passare quella notte da sola.


 Beatrice d'Este si sentiva la testa pesante. Non aveva alcuna voglia di festeggiare il nuovo anno.

Il domine magister si aggirava per il palazzo di Porta Giovia come un pazzo e alla Duchessa tutta quella confusione dava solo fastidio.

Leonardo s'era messo in testa di fare una festa, la sera del primo giorno dell'anno, che avrebbe superato in ricchezza e magnificenza perfino la sua famosissima Festa del Paradiso.

"Tutto bene?" chiese Ludovico, guardando la moglie, quando la vide arrivare nella loro camera, quella sera.

Negli ultimi giorni, dando la colpa alla nebbia ghiacciata che assediava Milano, Beatrice si era fatta di pessimo umore e, anche se su stretto dettame medico non si concedeva da tempo al marito, gli aveva chiesto di poter dormire comunque assieme.

'Per sicurezza' aveva specificato, quando il Moro aveva provato adire che di certo non avrebbe passato le sue notti con la Crivelli, se era quello che la preoccupava.

La verità era che la Duchessa da un po' non si sentiva bene e aveva paura per il figlio che portava in grembo.

Non ne aveva ancora fatto parola con nessuno, ma le sembrava che si muovesse meno e con meno forza. Pur nutrendo per prima delle perplessità, aveva dato la colpa alle grosse dimensioni del bambino e aveva cercato di non pensarci troppo.

Tuttavia, il suo tempo avrebbe dovuto essere già arrivato, anche secondo la levatrice, e quell'attesa la stava allarmando.

"Ho mal di testa." rispose Beatrice, raggiungendo il letto e coricandovisi, senza nemmeno far cenno al marito di chiamare le dame di compagnia affinché l'aiutassero a cambiarsi: "E mi fanno male anche le gambe. E poi, oggi, quel maledetto Leonardo non ha fatto altro che andare avanti e indietro come un matto... Mi ha fatto venire lui, il mal di testa, te lo posso assicurare."

Ludovico sospirò e, chiudendo in fretta la lettera che stava leggendo, le si andò a mettere accanto.

La mattina dopo, il Duca lasciò dormire la moglie, che russava lentamente, e andò a cercare il domine magister.

Siccome era presto, pensò che fosse ancora nelle sue stanze. E così era.

Essendo il padrone di casa, però, Ludovico non si lasciò certo fermare da una porta chiusa e così, dopo aver bussato un paio di volta senza ottenere risposta, semplicemente entrò.

"Oh, per Dio! Rivestitevi!" esclamò, rivolgendosi a un ragazzo che stava vagando nudo per la stanza.

Mentre il giovane, il viso paonazzo, si infilava in fretta e furia i suoi abiti, il Moro lo guardò meglio e lo riconobbe come uno dei nuovi paggi che erano arrivati a corte poco prima delle feste.

Il domine magister arrivò con calma, dalla saletta adiacente, e fece appena in tempo a vedere il ragazzo che scappava fuori veloce come il vento.

"L'avete spaventato." disse, rivolgendosi al Duca e indicando la porta con un cenno del capo: "Si può sapere che motivo avevate per farlo?"

Ludovico sbuffò: "Sapete benissimo che questo è un reato! In casa mia queste cose non dovrebbero accadere! Se le tollero è solo perché stimo la vostra arte, ma sappiate che sono a tanto così – disse, avvicinando pollice e indice – dall'essere stufo di chiudere un occhio, se non due!"

L'artista sollevò le sopracciglia, indolente e, sistemandosi il camicione bianco dentro le brache, guardò di sottecchi il suo mecenate: "Dunque? Che c'era di tanto urgente per irrompere nella mia stanza a quest'ora, spaventando quel povero ragazzo?"

Il Moro dovette fare un paio di profonde espirazioni, prima di ritrovare la calma. Sapeva che se avesse preso di petto quel lunatico maestro, avrebbe potuto aspettarsi qualsiasi reazione e tutto voleva fuorché indisporre un genio come Leonardo a un paio di giorni scarsi dalla festa che avrebbe dovuto rilanciare la corte milanese agli occhi di tutti.

"Mia moglie si sente poco bene – disse il Duca, trattenendo a stento la voce – dunque oggi vi pregherei di curare i preparativi del ricevimento facendo un po' meno rumore e cercando di darle il minor incomodo possibile."

Leonardo stava per ribattere con acidità, ma in fondo provava per Beatrice una sincera stima, per cui rispose solo: "Per la Duchessa, questo e altro."

Ludovico sperò che il domine magister non lo stesse solo dileggiando e, con un'ultima esasperata allargata di braccia, il Duca lo lasciò libero di finire di prepararsi per quella lunga giornata.


 Era il penultimo giorno dell'anno, quando Caterina ritornò alla rocca di Ravaldino, dopo il breve soggiorno a Forlimpopoli.

Giovanni, che per tutto il tempo non aveva fatto altro che aspettare e curare, finalmente, gli affari fiorentini tramite lettere rivolte a mezza Romagna, fu tra i primi ad accorgersi del suo arrivo.

Il Popolano, dalle merlature prima e dalle finestre che davano sul cortile poi, la seguì con lo sguardo fino a che non le vide lasciare il cavallo nelle stalle. Dopodiché, abbastanza certo che la Contessa sarebbe salita in camera per cambiarsi l'abito infangato e umido messo durante il viaggio, l'attese davanti alla sua porta.

Quando la Tigre arrivò, per un momento restò immobile, in fondo al corridoio, a fissarlo.

Sapeva che, una volta tornata, avrebbe dovuto affrontarlo, ma non credeva di doverlo fare subito.

Con una vaga ritrosia, riprese a camminare, fino a raggiungerlo.

La giornata era pallida e nevicava lentamente. Dalle finestre arrivava una luce fredda e lattiginosa che illuminava gli occhi chiari del fiorentino in un modo così particolare che per qualche istante Caterina non riuscì a far altro che fissarli.

Non c'era nessuno, in corridoio e, anche se qualcuno ci fosse stato, Giovanni sapeva che non sarebbe riuscito a trattenersi comunque.

Fece un paio di passi verso la Contessa, la strinse a sé per un lungo istante e poi la baciò, senza aspettare né un cenno né una parola.

Sentì il sapore del vento e dell'inverno sulle sue labbra e annusò l'odore umido del suo mantello, che si era impregnato di neve lungo il tragitto che da Forlimpopoli l'aveva riportata a lui.

La Leonessa, incapace di resistere, si lasciò catturare da quel gesto, che le parve tanto naturale da non riuscire a pensare che prima di allora Giovanni non l'avesse mai salutata a quel modo, dopo qualche giorno di lontananza.

Tuttavia, dopo alcuni secondi, la donna lo allontanò, con delicatezza, ma anche con decisione, e bisbigliò: "Ma non vedete com'è difficile? Non capite che cosa significa? Non vi rendete conto di cosa potrebbe succedere?"

Il Popolano sapeva benissimo cosa intendeva dire Caterina, ma rispose subito, con una sincerità disarmante: "Non mi interessa."

La Tigre sentì una della mani di Giovanni cercare la sua, e non gliela negò. Abbassò lo sguardo a fissare le loro dita intrecciate e, come sempre, restò colpita dalla bellezza di quelle del fiorentino.

Gran parte del fascino di quell'uomo, secondo Caterina, stava proprio nell'inconsapevolezza di Giovanni nei confronti della propria bellezza. Il Medici sembrava non capire quanto il suo corpo, pressoché in ogni dettaglio, fosse capace di calamitare l'attenzione di una donna.

Di certo non si considerava brutto, lo si capiva, ma la Tigre sarebbe stata pronta a giurare che il Popolano non fosse in grado di cogliere la forza del proprio aspetto. La sua non era una bellezza prorompente, com'era stata quella di Giacomo, ma leggera e dolce, di quelle che, una volta notate, non smettono mai più di rapire los guardo e il pensiero.

"A me interessa, sì, invece." ribatté Caterina, spostando gli occhi verso terra, in modo da non essere più distratta da altri pensieri.

"A me no." insistette Giovanni, mentre la sua mano stringeva quella della Contessa con più forza.

"Lo vedete?" soffiò la Tigre, con un debole sorriso: "Alla fine avevo ragione: siete molto più coraggioso di me."

L'ambasciatore stava per ribattere, ma dei passi in fondo al corridoio indussero Caterina a ritrarsi in modo definitivo ed entrare veloce nella propria camera.

Rimasto là dov'era, il fiorentino allacciò le mani dietro la schiena e accolse con uno sguardo vitreo i due soldati che stavano arrivando dalle scale e che, con il loro passo pesante, avevano fatto scappare la Tigre selvatica.

Stringendo le labbra carnose, Giovanni si mise a camminare. Non aveva una meta precisa, voleva solo liberare un po' la mente.

Checché la Contessa ne dicesse e ne pensasse, ormai il fiorentino era certo che anche lei non potesse più far finta di niente. Però ci voleva pazienza, con lei, una pazienza infinita.

"Tanto posso aspettare. Che altro si dovrebbe fare, se no?" borbottò tra sé l'uomo, attirandosi le occhiate curiose dei due soldati che lo stavano per affiancare.

"Lettera per voi." disse il castellano, quando lo incrociò, al piano di sotto.

Giovanni la prese e lo ringraziò. Ormai si era abituato alla scomoda prassi di vedersi aprire tutte le lettere da Cesare Feo o da Cardella, ma ogni volta era sempre una cosa spiacevole.

Vedendo che arrivava dai venditori di grano a cui aveva scritto il giorno prima, il Popolano non perse tempo e cominciò a leggerla, non badando agli occhi curiosi del castellano.

"Ottimo." sussurrò il Popolano, mentre un sorriso abbastanza entusiasta gli si dipingeva in volto.

"Buone notizie, immagino." disse Cesare Feo, che pur aveva letto la lettera prima del fiorentino, senza però capirci molto.

"Direi proprio di sì." confermò il Medici: "Quando la Contessa uscirà dalle sue stanze, se la incontrerete prima di me, potreste dirle che la sto cercando e che può trovarmi nella sala delle letture?"

Il castellano aggrottò la fronte, chiedendosi il perché di quella richiesta, visto che l'ambasciatore alloggiava proprio accanto alla sua signora e dunque avrebbe potuto semplicemente bussare alla sua porta.

Tuttavia, avvezzo alle stranezze degli abitanti di Ravaldino, l'uomo fece un mezzo inchino e assicurò: "Senza dubbio."

 Giovanni gli dedicò un sorriso e un ringraziamento e poi, trascinando appena le gambe, raggiunse la sala delle letture, dove si immerse in uno dei tomi lasciati fuori posto da uno dei figli di Caterina, in attesa che la Tigre uscisse dalla sua tana spontaneamente.

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