Se io potessi scrivere tutto...

By RebeccaValverde

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(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Du... More

Capitolo 250: nobis,cum semel occidit brevis lux,nox est perpetua una dormienda
Capitolo251:Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male
Capitolo 252: Per me si va ne la città dolente...
Capitolo 253: ...per me si va ne l'etterno dolore...
Capitolo 254: ...per me si va tra la perduta gente.
Capitolo 255: Giustizia mosse il mio alto fattore...
Capitolo 256: ...fecemi la divina potestate...
Capitolo 257: ...la somma sapienza...
Capitolo 258: ...e 'l primo amore.
Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...
Capitolo 260: ...se non etterne...
Capitolo 261: ...e io etterno duro.
Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
Capitolo 263: Non uccidere.
Capitolo 264: Settanta volte sette.
Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris
Capitolo266:Impossibile non sia cattivo chi un irrimediabile dramma ha abbattuto
Capitolo 267:ma se i tuoi occhi sono cattivi, sarai totalmente nelle tenebre.
Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.
Capitolo 269: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.
Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.
Capitolo 271: Cuius vulturis hoc erit cadaver?
Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.
Capitolo 273: Ma voi siate astuti come i serpenti e puri come le colombe.
Capitolo 274: Io stesso ero divenuto per me un grande enigma
Capitolo 275: Errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat
Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi
Capitolo 277: Relata refero
Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.
Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur
Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.
Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!
Capitolo 282: Obtorto collo
Capitolo 283: Fiducia
Capitolo 284: Superbiam iracundi oderunt, prudentes irrident
Capitolo 285: Anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo
Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze
Capitolo 287: Potius sero quam nunquam
Capitolo 288: Sii pronto nell'ascoltare, lento nel proferire risposta
Capitolo 289: Ducis in consilio posita est virtus militum
Capitolo 290: Chi fugge dalla battaglia può combattere un'altra volta
Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini
Capitolo 293: Hodie mihi, cras tibi
Capitolo 294: Prendere le misure
Capitolo 295: Il papa ha dieci anime
Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...
Capitolo 297: Flectamur facile, ne frangamur
Capitolo 298: Amore cerca di medicare l'umana natura
Capitolo 299: E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta.
Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.
Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere
Capitolo 303: Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!
Capitolo 304: Simone Ridolfi
Capitolo 305: A caccia
Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico
Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis
Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.
Capitolo 309: Nulli necesse est felicitatem cursu sequi
Capitolo 310: Non semper temeritas est felix
Capitolo 311: Panem et circenses
Capitolo 312: Neminem cito accusaveris, neminem cito laudaveris
Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram
Capitolo 314: Cras ingens iterabimus aequor
Capitolo 315: Dove ci sono troppe mani, usa la chiave
Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent
Capitolo 317: Dove men si sa, più si sospetta
Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset
Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.
Capitolo 320: Ingégnati, se puoi, d'esser palese.
Capitolo 321: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Capitolo 322: Ama chi t'ama, e accostati a chi ti s'appressa
Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est
Capitolo 324: Tu ne cedes malis, sed contra audentior ito
Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia
Capitolo 326: Non tramonti il sole sopra la vostra ira.
Capitolo 327: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido.
Capitolo 328: Sera nimis vita est crastina
Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!
Cap. 330: Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade
Capitolo 331: Necessitas ultimum et maximum telum est
Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille
Capitolo 333: O luce candidiore nota!
Capitolo 334: Il nuovo Governatore
Capitolo 335: Très braves et vaillans capitaines
Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.
Capitolo 337: Martedì Grasso
Capitolo 338: Il Falò delle Vanità
Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni
Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata
Capitolo 342: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore
Capitolo 343: De fumo ad flammam
Capitolo 344: Quis legem det amantibus?
Capitolo 345: Maior lex amor est sibi
Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai
Capitolo 347: È meglio sposarsi che ardere
Capitolo 348: Felix qui quod amat defendere fortiter audet
Capitolo 349: Unde fames homini vetitorum tanta ciborum?
Capitolo 350: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli
Capitolo 352: Porte chiuse
Capitolo 353: Nil sine magno vita labore dedit mortalibus
Capitolo 354: Eripere telum, non dare irato decet.
Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.
Capitolo 356: Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio
Capitolo 357: L'Amor, che m'è guerrero ed enemico...
Capitolo 358: 14 giugno 1497
Capitolo 359: Permitte divis cetera
Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.
Capitolo 361: Ride, si sapis.
Capitolo 362: Sangue
Capitolo 363: Heu, coscientia animi gravi est servitus!
C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...
Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.
Capitolo 366: Amor gignit amorem
Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.
Capitolo 368: Ognuno dovrebbe fare il mestiere che sa
Capitolo 369: Tacitulus Taxim
Capitolo 370: Dica pur chi mal vuol dire, noi faremo e voi direte.
Capitolo 371: Noli me tangere
Capitolo 372: Ipsa sua melior fama
Capitolo 373: Ché voler ciò udire è bassa voglia.
Capitolo 374: Fare del proprio meglio
Capitolo 375: Siamo alle porte co' sassi...
Cap376:Chi non ha ottenuto la fiducia del sovrano, non agisce come suo generale
Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent
Capitolo 378: Absit iniuria verbis
Capitolo 379: Chi è diffamato, è mezzo impiccato
Capitolo 380: Fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est
Capitolo 381: Virgo Intacta
Capitolo 382: Un anno esatto
Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum
Capitolo 384: Ribellione
Capitolo 385: Cursus honorum
Capitolo 386: Fame
Capitolo 387: Notissimum quodque malum maxime tolerabile
Capitolo 388: Roma locuta, causa finita
Capitolo 389: Carpe diem
Capitolo 390: La prova del fuoco
Capitolo 391: Che c'è di più dolce del miele? Che c'è di più forte del leone?
Capitolo 392: Nihil necesse est, undique enim ad inferos tantundem viae est
Capitolo 393: Ci vuole pazienza
Capitolo 394: Doppia caccia
Capitolo 395: Omnes eodem cogimur
Capitolo 396: Il titol di più onore è padre e difensore
Capitolo 397: Io son l'Occasione, a pochi nota...
Capitolo 398: 23 maggio 1498
Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra
Capitolo 400: Dichiarazione di guerra
Capitolo 401: Mi basta bene l'animo de difendermi
Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio
Capitolo 403: Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela
Capitolo 404: La via dello andare all'Inferno era facile...
Capitolo 405: ...poiché si andava allo ingiù e a occhi chiusi.
Capitolo 406: 21 giugno 1498
Capitolo 407: Miser Catulle, desinas ineptire...
Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.
Capitolo 409: Incipe, parve puer...
Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae
Capitolo 411: Fame da lupi
C412:Da mi basia mille,deinde centum,dein mille altera,dein secunda centum...
Capitolo 413: Acqua lontana non spegne il fuoco
Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu
Capitolo 415: Fratelli
Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum
Capitolo 417: Chi dice che gli è cosa dura l'aspettare, dice el vero.
Capitolo 418: Valiceno
Capitolo 419: Stillicidi casus lapidem cavat
C420: Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato...
Capitolo 421: Tu quidem macte virtute diligentiaque esto
Capitolo 422: Deos fortioribus adesse
Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...
Capitolo 424: Tristis eris si solus eris
Capitolo 425: Hannibal ad portas
Capitolo 426: Arduo essere buono
Capitolo 427: Tramontata è la Luna, tramontate le Pleiadi...
Capitolo 428: È a mezzo la notte...
Capitolo 429: ...trascorre il tempo; io dormo sola.
Capitolo 430: Sit tibi terra levis
Capitolo 431: Contro i tristi tutto il mondo è armato
Capitolo 432: Ordini
Capitolo 433: Et so quello che dico.
Capitolo 434: Nessuno ama l'uomo che porta cattive notizie
Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia
Capitolo 436: Odi et amo
Capitolo 437: Ambasciator non porta pena
Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame
Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis
Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male
Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.
Capitolo 442: Non fuit in solo Roma peracta die.
Capitolo 443: Il respecto, suspecto, et despecto.
Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores
C445: Perché non si dica mai che uno straniero è stato nostro comandante.
Capitolo 446: Campane a martello
C447:Ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere...
Capitolo 448: Non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina.
Capitolo 449: Ottaviano Manfredi

Capitolo 292: Tutti torniamo a la grande madre antica

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By RebeccaValverde

Un urlo graffiante e profondo squarciò il silenzio del palazzo del Governatore di Imola, e Tommaso, ancora riverso sulla scrivania, preda del sonno improvviso, si svegliò di soprassalto, confuso e frastornato.

Delle candele che gli facevano luce era rimasta accesa solo quella segnatempo, che era lì a ricordargli che erano passare più o meno due ore, da quando si era assopito senza accorgersene.

Stringendo gli occhi, si chiese cosa lo avesse strappato al sonno in modo tanto repentino, ma non gli ci volle molto per capirlo, perché un secondo grido, ancor più feroce e penetrante, lo fece scattare in piedi e correre verso la camera da letto in cui risposava la moglie.

"Devo andare..! Lasciatemi, devo..! Devo andare! È tardi! Mi aspettano..! Io devo..." la voce di Bianca, le mani protese in avanti come a cercare qualcosa, era affannosa, i suoi occhi erano vitrei, la sua fronte sudata.

Quando Tommaso le fu abbastanza vicino, vide la pozza di sangue che imbrattava le lenzuola e che si spandeva come una chiazza d'olio, a partire dal bassoventre di sua moglie.

Con il cuore in gola, il Governatore andò di nuovo alla porta e sbraitò, in cerca di aiuto. In pochi istanti, un nugolo di serve si stava già affaccendando attorno a Bianca, ma Tommaso non riusciva a sopportare le sue grida e le sue frasi sconnesse e senza senso.

"Andate a Forlì..." ebbe la prontezza di dire a uno dei servi che erano accorsi per vedere che stava capitando: "Dite subito a mia cognata che... Ditele di... Se può, che venga qui a Imola..."

Il domestico annuì, capendo senza che fosse bisogno di parole più precise, e terrorizzato, sia per il tono del padrone, sia per tutto il sangue che aveva visto colare giù dal letto quando le donne del palazzo avevano provato a spostare la padrona, che gemeva sempre più disperata.

Dopo un solo attimo di esitazione, il servo lasciò la stanza per adempire al suo compito.

Tommaso si sentiva impotente e l'unica altra cosa che gli venne in mente di fare fu prendere per la collottola uno dei paggi che erano arrivati a curiosare e ordinargli: "Corri alla rocca e chiama qui mia suocera!"

Quando il ragazzetto fu partito di corsa, il Governatore si premette i palmi contro le tempie, tentato di scappare, di sottrarsi a quell'improvviso dramma, ma poi, da sopra le spalle della levatrice, che era appena arrivata tutta trafelata e ancora in abiti da camera, Tommaso incrociò gli occhi colmi di lacrime e panico di Bianca e a quel punto si fece forza e le andò vicino.

Inginocchiandosi accanto al letto, mentre le donne cercavano di fare qualcosa per fermare l'emorragia, le baciò la fronte bollente e fradicia di sudore freddo e le sussurrò all'orecchio: "Ti amo, ti amo Bianca...Ti prego, non..."

Stava per aggiungere ancora qualcosa, ma un urlo della moglie, profondo e nero come la notte in cui erano immersi, lo zittì e lo fece scoppiare in lacrime.


 La stanza era immersa nel buio della notte ed era silenziosissima, eppure Caterina non riusciva a prendere sonno.

L'aria era ancora gravata dal sentore dell'uomo che se n'era appena andato e la Tigre, che aveva creduto di trovare almeno il sollievo del sonno dopo quell'incontro, non faceva invece altro che rimuginare in silenzio, una mano sul petto che si alzava e scendeva lentamente e gli occhi fissi alla finestra chiusa da cui filtrava incerta la luce della luna.

Si sentiva stanca, le lenzuola umide di sudore sotto di lei le davano la strana sensazione di essere avvolta in una specie di bozzolo, eppure non riusciva a tacitare i tormenti della sua anima e quelli, di rimando, non la lasciavano dormire.

Chiuse un attimo le palpebre e rivide il ragazzo che aveva cacciato dalla sua stanza non appena non le era più stato utile. Si sentì incredibilmente vuote nel rendersi conto che già non ne ricordava quasi più i lineamenti.

Con un sospiro silenzioso e spezzato, Caterina si girò sul fianco, affondando il volto nel cuscino.

Le tornarono alla memoria all'improvviso tutte le volte in cui aveva fatto un gesto simile quando Giacomo era ancora al suo fianco.

Lo aveva fatto anche i primi giorni in cui era rimasta sola. Ovviamente non aveva mai più sentito l'odore di suo marito sul guanciale. E così ogni volta la delusione l'aveva sprofondata ancora di più nella disperazione.

E quella notte non faceva eccezione.

Si sedette sul letto, appoggiò i piedi in terra e sentire il freddo pavimento le ridiede una parvenza di vita, in quella crisalide che era la sua stanza. Era sorprendente come bastasse una sensazione tanto insignificante per ricordarle che il suo cuore pulsava ancora e nelle sue vene il sangue scorreva senza sosta.

Stava già cominciando giugno. Giacomo era da nove mesi.

Mentre si asciugava con il dorso della mano una lacrima, qualcuno bussò. Sorpresa di essere richiesta a quell'ora, la donna afferrò subito la veste da camera che teneva appesa alla sedia della scrivania e chiese chi fosse.

"Si tratta di una questione urgentissima!" rispose la voce del castellano dall'altro lato della porta.

Accigliandosi, Caterina si passò ancora la mano sugli occhi, per asciugarli una volta per tutte e aprì l'uscio di qualche centimetro.

Alla luce incostante delle torce, un uomo scapigliato e dal viso tirato in un'espressione di panico affiancava il castellano Feo.

"Che c'è?" chiese la Contessa, dato che nessuno dei due parlava.

"Vengo da Imola, mia signora..." fece lo sconosciuto: "Sono uno dei servi del Governatore Feo."

"Cos'è successo?" domandò subito la Tigre, che nel tono tremante dell'imolese leggeva già qualcosa di molto brutto.

"Vostra sorella..." cominciò l'uomo, ma scoppiò a piangere.

Caterina si sentì mancare e si rivolse a Cesare: "Che cosa è successo?"

"Mi ha detto che vostra sorella non è stata bene. Quando è partito da Imola, l'ha vista soccorsa dalle donne del palazzo, ma stava perdendo molto sangue." riferì il castellano, mesto: "Forse rischia di perdere il bambino."

Respirando a fatica, la Tigre richiuse subito la porta. Si schiacciò la punta delle dita sugli occhi, fino a non vedere altro che lampi bianchi e alla fine si decise.

Indossò il primo abito che le capitò sottomano, uno di quelli che metteva di solito per addestrarsi e si infilò gli stivali da caccia.

Quando uscì dalla sua camera, trovò i due uomini ancora in attesa davanti alla porta. Doveva essere stata un fulmine a prepararsi, perchè i due apparvero sconvolti nel vederla già vestita.

"Dove state andando?" chiese debolmente Cesare Feo, mentre la Contessa li oltrepassava, scansandoli di malagrazia.

Caterina non rispose e, appena riuscì a tornare pienamente cosciente dei propri movimenti, iniziò a correre.

"Ma che succede..?" Giovanni Medici, che era rientrato da poco dopo essersi perso lungo la via di ritorno da Faenza, si affacciò, attirato dal trambusto, fuori dalla sua camera e si trovò davanti il castellano e l'imolese.

"La sorella della Contessa potrebbe perdere il figlio che porta in grembo." spiegò Cesare Feo al fiorentino: "La nostra signora sta correndo da lei."

"Fino a Imola? A quest'ora?" fece Giovanni, sgranando gli occhi: "Da sola? Non la si dovrebbe accompagnare? Non è sicuro andare fino a Imola in piena notte..."

Il castellano, mentre l'imolese riprendeva a piangere per la fatica del viaggio improvviso e per la tensione, guardò di traverso l'ambasciatore: "Sfido chiunque a provare a seguirla in un momento simile. Non la conoscete, se pensate che accetterebbe una scorta. Se non l'avete ancora capito, le tigri sono animali solitari, non amano stare in branco."

Il Popolano guardò un momento verso il buio del corridoio lungo il quale era scomparsa Caterina e poi fece un cenno d'assenso ai due uomini che gli stavano di fronte.

Diede mostra di rientrare in stanza, ma appena il castellano e il tizio giunto da Imola si furono allontanati, Giovanni infilò il giubbotto che aveva tolto da poco e, ravviandosi i riccioli castani, prese la decisione di provare a seguire ugualmente quella che tutti descrivevano come una Tigre solitaria.

Le avrebbe offerto sostegno e protezione e l'avrebbe accompagnata volentieri a Imola, se era là che era diretta. Al diavolo quello che avrebbero pensato gli altri nel saperli partiti assieme.


 Caterina svegliò il garzone di stalla con un rabbioso calcio sugli stinchi. Sapeva benissimo che quel ragazzino non aveva colpe, ma non era in grado di controllarsi.

"Muoviti!" inveì, tirandolo su di peso dal pagliericcio in cui dormiva: "Sella una bestia! Una veloce!"

Il garzone, ancora mezzo addormentato, scelse subito il cavallo migliore della scuderia, senza nemmeno provare a lamentarsi per il brusco risveglio.

Conosceva bene come tutti i metodi della Contessa e sapeva che, se non fosse stata soddisfatta e pure in fretta, avrebbe anche potuto punirlo in modo cruento, magari perfino sbattendolo in cella.

Lui era a Forlì da poco, ma le voci correvano e, dal fuoco nelle iridi della sua signora che vedeva rilucere nel buio quasi perfetto delle stalle, non era poi difficile credere a quelli che la dipingevano come un demonio in carne e ossa.

Tuttavia, più il ragazzetto cercava di fare in fretta, più le sue mani si aggrovigliavano, impedendogli di fissare a dovere la sella sotto la pancia della bestia o i finimenti lungo il muso.

La Tigre sentiva il fiato della fretta sul collo e alla fine non resistette più. Strappò di mano briglie e sella al ragazzo e provò a sistemarle per conto suo. Le sue dita, però, tremavano troppo. Vibravano con forza, proprio come quando era morto Giacomo.

Caterina si accorse con orrore, in quel preciso momento, che la sua mente aveva già deciso per lei di pensare al peggio.

Quell'agitazione e quel dolore pungente che già avvertiva nel centro del petto stavano a indicare che per lei sua sorella era già morta.

Quando si rese conto di non essere in grado di tenere le mani sufficientemente ferme per sistemare il cavallo, gettò in terra i finimenti e la sella e montò a pelo.

"Levati di mezzo!" intimò al garzone, quasi travolgendolo.

Il garzone si spostò all'istante e così Caterina fu libera di galoppare fino all'ingresso delle stalle, dove per poco non investì in pieno Giovanni.

"Aspettate!" fece l'ambasciatore, alzando le mani: "Vengo con voi!"

In tutta risposta, la Contessa fece fermare un momento il cavallo e minacciò il fiorentino con voce ferma e bassa: "Non provate a seguirmi." e poi colpì i fianchi della povera bestia coi talloni.

Il Popolano dovette farsi da parte, mentre il cavallo lo sfiorava, e capì subito che quello che aveva detto il castellano era vero.

Per quanto fosse tentato all'inverosimile di seguirla comunque, si fece persuaso del fatto che sarebbe stata una mossa sbagliata.

La Tigre non voleva testimoni della sua paura.

L'aveva capito nell'istante stesso in cui, mentre lei gli diceva di non seguirla, i loro occhi si erano incrociati per la frazione di un secondo. Il tono della voce era minaccioso, ma il suo sguardo implorava solo pietà.

Con un sospiro pesante, Giovanni si appoggiò abbattuto allo stipite del portone e poi guardò il garzone di stalla, che, ancora sconvolto, stava raccogliendo da terra i finimenti.

"Sta cavalcando a pelo?" chiese il fiorentino, mentre cercava di ricordare ciò che aveva visto.

Il ragazzo annuì e poi lo raggiunse fuori dalla stalla, sotto la luce chiara della luna: "Sì, messere."

Giovanni strinse i denti e annusò per un istante l'aria fragrante dell'estate. Giugno iniziava quella notte, eppure il fiorentino avvertiva nelle ossa uno strano freddo.

Dando una pacca di incoraggiamento al garzone, il Popolano gli disse di tornarsene a dormire e poi rientrò nelle viscere della rocca, fin nella sua stanza, sul letto che gli era stato concesso in qualità di ambasciatore.

Mentre cercava invano di prendere sonno, si accorse di essere ancora vestito. Non aveva voglia di cambiarsi. Si spogliò e basta.

Mentre si rigirava nel letto, si rese conto che non sarebbe riuscito a dormire.

Avrebbe voluto più di ogni altra cosa essere con lei, in quel momento, qualunque cosa fosse successa.

Quel giorno era stato a Faenza e per la prima volta da quando la conosceva era stato lontano da lei.

Era impossibile da comprendere, ma il bisogno che sentiva di essere sempre nel suo raggio d'azione si era fatto un varco in lui come un animale selvatico in mezzo al bosco e pian piano lo stava divorando.

Stringendo il pugno e colpendo il materasso in un gesto di frustrazione, Giovanni si trovò a chiedersi se mai una donna come la Contessa Sforza avrebbe potuto provare interesse per un uomo come lui.

Giovanni aveva un cognome importante, veniva da una città importante, aveva una carica importante. Però portava anche in sé la condanna della gotta e, in più, come avrebbe fatto a competere con un fantasma?

Cosa poteva sperare di ottenere, se anche fosse riuscito a guadagnarsi la sua attenzione? Una notte e basta? La stessa sorte che toccava agli uomini che lei si sceglieva come passatempo? Essere usato e poi messo in un angolo come un giocattolo rotto? L'avrebbe cacciato da Forlì per non vederlo più, così come spediva le reclute con cui si intratteneva nei punti più disparati del suo Stato solo per non rischiare di imbattersi di nuovo in loro?

Affondando il viso nel cuscino, Giovanni cercò di calmare il suo respiro, sentendosi egoista e molto piccolo nel pensare a certe cose, quando la donna di cui si era innamorato era in preda al panico perché la sorella stava rischiando la vita...


 Caterina, per evitare il passaggio da Faenza, che l'avrebbe solo rallentata, attraversò i boschi che conosceva come le sue tasche a una velocità così folle che quando arrivò a Imola il suo cavallo era coperto di schiuma.

Smontò dal pelo scivoloso senza nemmeno curarsi di lasciare la bestia alle cure di qualcuno e percorse gli ultimi metri che la separavano dal palazzo del Governatore di corsa.

Come in un bolla, l'edificio spiccava tra le strade ancora scure della città perché pressoché da tutte le finestre arrivava la tremula luce delle candele e delle torce.

L'alba si stava pian piano avvicinando, ma il cielo era più nuvoloso di quanto non fosse quando Caterina era partita da Forlì. Il leggero vento che si alzava, spirando verso est, prometteva pioggia.

La Contessa si fece riconoscere in fretta dalla guardie che presidiavano l'ingresso e uno dei due uomini ebbe lo spirito di dirle, accorato: "Fatevi coraggio." mentre lei vi passava accanto.

Il palazzo era completamente sveglio. La Tigre non volle subito cogliere i segni, ma non poté evitare di vedere i servi piangere, il medico che seguiva la corte imolese in un angolo, le braccia insanguinate e un'espressione mesta, mentre parlava a voce bassa con una donna di mezz'età e, soprattutto, una delle dame di compagnia di sua sorella disperata, piegata in due dalle lacrime.

Quando qualcuno si accorse della sua presenza, Caterina si sentì estranea al mondo che la circondava. In un certo senso era come essere sotto l'effetto della sua pozione per dormire. Vedeva gli occhi dei presenti fissarsi su di lei con un misto di compassione e sorpresa e non voleva capirne il motivo.

"Dov'è mia sorella?" chiese la Contessa, a voce bassa, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Fu il medico a prendere di petto la situazione. Allacciandosi le mani rosse di sangue secco dietro la schiena, le si avvicinò. Ondeggiò un momento il capo, mentre le narici del naso aquilino si aprivano in cerca di aria.

Alla fine le disse: "Venite con me."

Come senza volontà, la Tigre seguì l'uomo dal profilo secco e non si fece domande, mentre egli la scortava fino al piano di sopra.

Lungo la strada, l'uomo provò a prepararla, spiegando con calma eccessiva cosa era successo quella notte: "Da tutto il giorno aveva avuto dei piccoli dolori, segno che il parto si avvicinava... Tuttavia, quando è stato il momento, qualcosa ha portato a una grave perdita di sangue e vostra sorella appariva confusa, parlava in modo insensato, aveva la febbre alta..."

Caterina ascoltava solo con un orecchio, mentre i suoi occhi vagavano inquieti sulle cameriere che affollavano il corridoio. Ma quanto personale c'era in quel palazzo? Perché erano tutti lì schierati come se fosse appena successo qualcosa di grave?

La mente della Tigre stava iniziando a creare dei circoli viziosi che le facevano sentire l'assurdità di quella situazione. Fino a poche ore prima era a Forlì, immersa nel ricordo di suo marito, e ora che ci faceva a Imola, in mezzo a gente che mormorava e si asciugava le lacrime dal viso?

Il medico giunse davanti alla porta della camera del Governatore e sussurrò: "Vi avviso che non è uno spettacolo gradevole. Non abbiamo ancora fatto in tempo a ricomporla."

Caterina guardò il dottore con espressione stolida, non riuscendo a cogliere appieno il senso di quelle parole.

Poi la porta si aprì e l'odore ferrigno del sangue la colpì in pieno, come un pugno nel centro dello stomaco. Quello, più d'ogni altra cosa, la riportò bruscamente alla realtà, facendole cogliere tutta d'un tempo la verità.

In mezzo alla stanza, sul letto, le cui lenzuola erano imbevute di sangue, c'era il corpo nudo ed esangue di Bianca.

Avevano giusto avuto la delicatezza di coprirla fino al seno con un un telo, che però già si era a sua volta impregnato di rosso.

Le numerose candele che davano luce alla scena sembravano spietati indici indagatori che additavano al volto niveo e alle braccia abbandonate lungo i fianchi della giovane.

Caterina non si accorse nemmeno che nella stanza con lei c'erano altre persone. Camminò lentamente fino al capezzale della sorella e lo guardò fissa.

Tutte le storie che dicevano sulla serenità che un volto acquista dopo la morte erano solo panzane.

Il viso di Bianca era contratto, come se ancora fosse spaccata in due dal dolore. Le labbra erano schiuse e gli occhi erano velati, ma ancora spalancati.

Riuscendo a stento a frenare il tremito che l'aveva presa di nuovo, la Contessa allungò una mano e tentò di abbassare le palpebre della sorella, come illudendosi, a quel modo, di farla apparire meno straziata.

Non ci riuscì. La pelle di Bianca era gelida e rigida. Per quanto avesse cercato di far forza, le palpebre rimasero aperte.

"Ci ho provato anche io, ma..." la voce di Lucrezia, resa acuta dal pianto appena smesso, arrivò alle spalle di Caterina, facendola quasi sobbalzare.

Madre e figlia si fissarono per un lunghissimo minuto, senza trovare null'altro da dire. In quel momento si sentirono due estranee.

La Contessa distolse lo sguardo e si accorse solo allora di Tommaso. Era seduto in terra, vicino alla porta, la testa tra le mani.

Istintivamente, sapendo che per Bianca ormai non poteva più far nulla, si andò a inginocchiare accanto al cognato.

Senza riuscire a parlare, gli prese le mani nelle sue e provò a convincerlo ad alzare lo sguardo su di lei.

Docile, l'uomo si lasciò rimettere in piedi e la seguì nella stanza accanto.

Caterina voleva trovare il modo di parlargli, ma non voleva farlo davanti al letto di morte di sua sorella. L'odore del sangue e la presenza del cadavere di Bianca erano troppo anche per lei.

La Contessa chiuse la porta alle loro spalle e, nel buio della camera in cui si erano rintanati, abbracciò Tommaso con forza, con insistenza, con urgenza, più in cerca di consolazione per sé, che non nel tentativo di consolare lui.

"Era una femmina..." sussurrò il Governatore, mentre Caterina ancora lo teneva stretto contro di sé: "Noi l'avremmo chiamata Lucrezia. E invece è morta anche lei..."

La donna, che non aveva avuto il coraggio di chiedere che ne fosse stato del neonato, subì quell'ennesima rivelazione come un colpo basso del destino.

Non avevano già sofferto abbastanza? Non erano già passati attraverso abbastanza sentieri di rovi?

"Siamo rimasti soli, Caterina..." sussurrò Tommaso, osando per la prima volta chiamare per nome la sua signora: "Ci hanno lasciati soli..."

Dopo parecchio tempo, prima di cedere e perdere le forze, vinta dal dolore, Caterina lasciò Tommaso libero dal suo abbraccio.

L'uomo, nella penombra che iniziava a tingersi coi colori del primo sole, deglutì rumorosamente e si passò una mano sul collo. Indossava una camicia larga, dal colletto aperto, e delle brache da lavoro. La Contessa pensò che probabilmente aveva addosso ancora gli abiti del giorno prima. La tragedia aveva colpito anche lui all'improvviso, come era capitato a lei con Giacomo.

In entrambi i casi avrebbero potuto subodorare il pericolo, ma tutti e due erano stati ciechi, seppur in modo diverso.

"Andiamo." sussurrò la Tigre, sforzandosi di ritrovare la sua leggendaria sicurezza: "Ci sono molte cose da organizzare, adesso..."

Il Governatore soffiò, e, mentre Caterina si voltava per andare alla porta, l'afferrò per un braccio e se l'avvicinò tanto da riuscire a rubarle un bacio.

Con la prontezza di un felino, la donna lo spintonò via e poi gli diede uno schiaffò fortissimo in piena guancia: "Il corpo di mia sorella è ancora immerso nel suo sangue nella camera qua affianco."

La voce della Tigre era roca e implacabile, ma Tommaso non riusciva a coglierne la severità.

Caterina intravide negli occhi spersi di suo cognato il caos.

Capì che riprenderlo o punirlo per quel gesto sarebbe stato inutile.

"Vi perdono solo perché siete confuso." gli disse, aprendo la porta: "Ma non fatelo mai più."


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