Se io potessi scrivere tutto...

By RebeccaValverde

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(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Du... More

Capitolo 250: nobis,cum semel occidit brevis lux,nox est perpetua una dormienda
Capitolo251:Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male
Capitolo 252: Per me si va ne la città dolente...
Capitolo 253: ...per me si va ne l'etterno dolore...
Capitolo 254: ...per me si va tra la perduta gente.
Capitolo 255: Giustizia mosse il mio alto fattore...
Capitolo 256: ...fecemi la divina potestate...
Capitolo 257: ...la somma sapienza...
Capitolo 258: ...e 'l primo amore.
Capitolo 259: Dinanzi a me non fuor cose create...
Capitolo 260: ...se non etterne...
Capitolo 261: ...e io etterno duro.
Capitolo 262: Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.
Capitolo 263: Non uccidere.
Capitolo 264: Settanta volte sette.
Capitolo 265: Proprium humani ingenii est odisse quem laeseris
Capitolo266:Impossibile non sia cattivo chi un irrimediabile dramma ha abbattuto
Capitolo 267:ma se i tuoi occhi sono cattivi, sarai totalmente nelle tenebre.
Capitolo 268: La strategia è la via del paradosso.
Capitolo 269: Odero, si potero. Si non, invitus amabo.
Capitolo 270: Nisi caste, saltem caute.
Capitolo 271: Cuius vulturis hoc erit cadaver?
Capitolo 272: La croce mi fa dolente e non mi val Deo pregare.
Capitolo 273: Ma voi siate astuti come i serpenti e puri come le colombe.
Capitolo 274: Io stesso ero divenuto per me un grande enigma
Capitolo 275: Errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat
Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi
Capitolo 277: Relata refero
Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.
Capitolo 279: Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur
Capitolo 280: Chi può fare i capitoli, può eziandio disfarli.
Capitolo 281: Ell'è tanto utile cosa questa pace!
Capitolo 282: Obtorto collo
Capitolo 283: Fiducia
Capitolo 284: Superbiam iracundi oderunt, prudentes irrident
Capitolo 285: Anche un viaggio di mille miglia comincia con un passo
Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze
Capitolo 288: Sii pronto nell'ascoltare, lento nel proferire risposta
Capitolo 289: Ducis in consilio posita est virtus militum
Capitolo 290: Chi fugge dalla battaglia può combattere un'altra volta
Cap.291: Credere alla Fortuna è cosa pazza:aspetta pur che poi si pieghi e chini
Capitolo 292: Tutti torniamo a la grande madre antica
Capitolo 293: Hodie mihi, cras tibi
Capitolo 294: Prendere le misure
Capitolo 295: Il papa ha dieci anime
Capitolo 296:L'anima è immortale, e non possesso tuo bensì della provvidenza...
Capitolo 297: Flectamur facile, ne frangamur
Capitolo 298: Amore cerca di medicare l'umana natura
Capitolo 299: E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta.
Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria
Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.
Capitolo 302: Unum quodque verbus statera auraria pendere
Capitolo 303: Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!
Capitolo 304: Simone Ridolfi
Capitolo 305: A caccia
Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico
Capitolo 307: Non mortem timemus, sed cogitationem mortis
Capitolo 308: Blanditia, non imperio, fit dulcis Venus.
Capitolo 309: Nulli necesse est felicitatem cursu sequi
Capitolo 310: Non semper temeritas est felix
Capitolo 311: Panem et circenses
Capitolo 312: Neminem cito accusaveris, neminem cito laudaveris
Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram
Capitolo 314: Cras ingens iterabimus aequor
Capitolo 315: Dove ci sono troppe mani, usa la chiave
Capitolo 316: Ex factis, non ex dictis amicos pensent
Capitolo 317: Dove men si sa, più si sospetta
Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset
Capitolo 319: ...che è vento ed ombra ed à nome beltade.
Capitolo 320: Ingégnati, se puoi, d'esser palese.
Capitolo 321: Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Capitolo 322: Ama chi t'ama, e accostati a chi ti s'appressa
Capitolo 323: Idem velle atque nolle, ea demum firma amicitia est
Capitolo 324: Tu ne cedes malis, sed contra audentior ito
Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia
Capitolo 326: Non tramonti il sole sopra la vostra ira.
Capitolo 327: Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido.
Capitolo 328: Sera nimis vita est crastina
Capitolo 329: Acta est fabula. Plaudite!
Cap. 330: Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade
Capitolo 331: Necessitas ultimum et maximum telum est
Capitolo332:Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile tra mille e mille
Capitolo 333: O luce candidiore nota!
Capitolo 334: Il nuovo Governatore
Capitolo 335: Très braves et vaillans capitaines
Capitolo 336: Felix criminibus nullus erit diu.
Capitolo 337: Martedì Grasso
Capitolo 338: Il Falò delle Vanità
Cap.339:È sul campo di battaglia che si decide la vita e la morte delle nazioni
Capitolo 340: Amor, ch'a nullo amato amar perdona
Capitolo 341: Tum caedes hominum generi, tum proelia nata
Capitolo 342: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore
Capitolo 343: De fumo ad flammam
Capitolo 344: Quis legem det amantibus?
Capitolo 345: Maior lex amor est sibi
Capitolo 346: Nessun uomo conosce la certezza e nessun uomo la conoscerà mai
Capitolo 347: È meglio sposarsi che ardere
Capitolo 348: Felix qui quod amat defendere fortiter audet
Capitolo 349: Unde fames homini vetitorum tanta ciborum?
Capitolo 350: Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
C351:La dignità non consiste nel possedere onori,ma nella coscienza di meritarli
Capitolo 352: Porte chiuse
Capitolo 353: Nil sine magno vita labore dedit mortalibus
Capitolo 354: Eripere telum, non dare irato decet.
Capitolo 355: Grave ipsius coscientiae pondus.
Capitolo 356: Et veggio 'l meglio, et al peggior m'appiglio
Capitolo 357: L'Amor, che m'è guerrero ed enemico...
Capitolo 358: 14 giugno 1497
Capitolo 359: Permitte divis cetera
Capitolo 360: Hoc volo, sic iubeo, sit pro ratione voluntas.
Capitolo 361: Ride, si sapis.
Capitolo 362: Sangue
Capitolo 363: Heu, coscientia animi gravi est servitus!
C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...
Capitolo 365: Ego te intus et in cute novi.
Capitolo 366: Amor gignit amorem
Capitolo 367: Praeterita magis reprehendi possunt quam corrigit.
Capitolo 368: Ognuno dovrebbe fare il mestiere che sa
Capitolo 369: Tacitulus Taxim
Capitolo 370: Dica pur chi mal vuol dire, noi faremo e voi direte.
Capitolo 371: Noli me tangere
Capitolo 372: Ipsa sua melior fama
Capitolo 373: Ché voler ciò udire è bassa voglia.
Capitolo 374: Fare del proprio meglio
Capitolo 375: Siamo alle porte co' sassi...
Cap376:Chi non ha ottenuto la fiducia del sovrano, non agisce come suo generale
Capitolo 377: Simul stabunt vel simul cadent
Capitolo 378: Absit iniuria verbis
Capitolo 379: Chi è diffamato, è mezzo impiccato
Capitolo 380: Fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est
Capitolo 381: Virgo Intacta
Capitolo 382: Un anno esatto
Capitolo 383: Simpliciter pateat vitium fortasse pusillum
Capitolo 384: Ribellione
Capitolo 385: Cursus honorum
Capitolo 386: Fame
Capitolo 387: Notissimum quodque malum maxime tolerabile
Capitolo 388: Roma locuta, causa finita
Capitolo 389: Carpe diem
Capitolo 390: La prova del fuoco
Capitolo 391: Che c'è di più dolce del miele? Che c'è di più forte del leone?
Capitolo 392: Nihil necesse est, undique enim ad inferos tantundem viae est
Capitolo 393: Ci vuole pazienza
Capitolo 394: Doppia caccia
Capitolo 395: Omnes eodem cogimur
Capitolo 396: Il titol di più onore è padre e difensore
Capitolo 397: Io son l'Occasione, a pochi nota...
Capitolo 398: 23 maggio 1498
Capitolo 399: Il Vescovo di Volterra
Capitolo 400: Dichiarazione di guerra
Capitolo 401: Mi basta bene l'animo de difendermi
Capitolo 402: Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio
Capitolo 403: Invece di maledire il buio è meglio accendere una candela
Capitolo 404: La via dello andare all'Inferno era facile...
Capitolo 405: ...poiché si andava allo ingiù e a occhi chiusi.
Capitolo 406: 21 giugno 1498
Capitolo 407: Miser Catulle, desinas ineptire...
Capitolo 408: Sine pennis volare haud facile est.
Capitolo 409: Incipe, parve puer...
Capitolo 410: Naturae sequitur semina quisque suae
Capitolo 411: Fame da lupi
C412:Da mi basia mille,deinde centum,dein mille altera,dein secunda centum...
Capitolo 413: Acqua lontana non spegne il fuoco
Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu
Capitolo 415: Fratelli
Capitolo 416: Semel emissus, volat irrevocabile verbum
Capitolo 417: Chi dice che gli è cosa dura l'aspettare, dice el vero.
Capitolo 418: Valiceno
Capitolo 419: Stillicidi casus lapidem cavat
C420: Avvezza i tuoi soldati a spregiare il vivere delicato...
Capitolo 421: Tu quidem macte virtute diligentiaque esto
Capitolo 422: Deos fortioribus adesse
Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...
Capitolo 424: Tristis eris si solus eris
Capitolo 425: Hannibal ad portas
Capitolo 426: Arduo essere buono
Capitolo 427: Tramontata è la Luna, tramontate le Pleiadi...
Capitolo 428: È a mezzo la notte...
Capitolo 429: ...trascorre il tempo; io dormo sola.
Capitolo 430: Sit tibi terra levis
Capitolo 431: Contro i tristi tutto il mondo è armato
Capitolo 432: Ordini
Capitolo 433: Et so quello che dico.
Capitolo 434: Nessuno ama l'uomo che porta cattive notizie
Capitolo 435: Impudenter certa negantibus difficilior venia
Capitolo 436: Odi et amo
Capitolo 437: Ambasciator non porta pena
Capitolo 438: Il bere vino puro placa la fame
Capitolo 439: De morte Ioannis Medicis
Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male
Capitolo 441: Stultitiast, pater, venatum ducere invitas canes.
Capitolo 442: Non fuit in solo Roma peracta die.
Capitolo 443: Il respecto, suspecto, et despecto.
Capitolo 444: Ira et spes fallaces sunt auctores
C445: Perché non si dica mai che uno straniero è stato nostro comandante.
Capitolo 446: Campane a martello
C447:Ma i coraggiosi riflettono sui pericoli al loro sopraggiungere...
Capitolo 448: Non fare il forte con il vino, perché ha mandato molti in rovina.
Capitolo 449: Ottaviano Manfredi

Capitolo 287: Potius sero quam nunquam

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By RebeccaValverde

Teramo era caduta sotto l'attacco puntuale e deciso di Virginio Orsini e il sacco di Villamarina e Giulianova aveva fruttato alla parte francese un bel po' di risorse alimentari e anche qualche sacco d'oro.

I napoletani si stavano impegnando nella difesa, Virginio ne era sicuro e ne riconosceva lo sforzo, ma erano deboli e demotivati e, anche se il loro re stava facendo il possibile per far sentire la propria presenza, non bastava di certo qualche bel discorso e la prospettiva di un matrimonio a corte per risollevare le sorti della guerra.

L'Orsini aveva tutta l'intenzione di battere il ferro finché era caldo, sfruttando al massimo la palese mancanza di coordinazione dei napoletani, ma una sera, sul finire di quel marzo, appena dopo aver consumato la sua razione, il mercenario cominciò a sentirsi poco bene.

Una febbre che nemmeno il cerusico seppe inquadrare lo costrinse a letto per giorni e Virginio finì per imputare quel crollo improvviso alla vecchiaia che avanzava.

Scrisse a sua sorella Bartolomea, per informarla della sua momentanea difficoltà, ma già quando giunse la risposta da Bracciano, con cui la donna tentava di rinfrancarlo con parole di incoraggiamento, Virginio si sentiva meglio.

Il cognato Bartolomeo d'Alviano si consultò con lui sulla mosse future e Virginio, vedendo il suo fronte abbastanza tranquillo e non sentendosi sufficientemente in forze per guidare una nuova campagna, lo pregò di congiungersi con Paolo Orsini e dare manforte a lui.

"Io me la caverò egregiamente, come sempre." scherzò Virginio, arricciandosi con fare ammiccante i lunghi baffetti.

Appena Bartolomeo aveva lasciato il campo, arrivò una strana proposta da parte, niente meno, che di Ferrandino d'Aragona.

L'Orsini, che aveva lasciato la sua cuccetta con grande riluttanza, ascoltò con attenzione quello che il messo napoletano aveva da dire.

Si trattava della proposta di una battaglia a viso aperto, senza assedi né imboscate. Uno scontro su campo concordato, un'unica azione che avrebbe deciso quale parte avrebbe vinto la guerra.

Virginio, ancora acciaccato e con le ossa che friggevano per la febbre passata da poco, venne tentato dall'idea di chiudere la sua campagna con una trionfale battaglia campale, ma poi si ricordò di Francesco Gonzaga e della sua tragica Fornovo.

A credere di essere troppo bravo sul campo, avrebbe potuto fare la sua stessa ingloriosa fine.

Che se ne sarebbe fatto di una vittoria sulla carta, se poi, di fatto, fosse stato in qualche modo umiliato dal suo nemico?

Non era giovane come il Gonzaga, non era altrettanto tracotante. Non sarebbe mai riuscito a fare la faccia di bronzo, vantandosi per quella che in realtà era una mezza sconfitta. Non voleva chiudere la sua carriera con uno sfacelo.

E poi si sentiva ancora troppo insicuro e indebolito. Non avrebbe sopportato l'idea di starsene nelle retrovie mentre i suoi combattevano. Però sapeva anche che, nelle sue condizioni, se avesse voluto prendere parte attiva a una battaglia di quel tipo, non sarebbe sopravvissuto nemmeno all'ingaggio iniziale.

Perciò, sorridendo cordialmente al messo di Ferrandino, si strinse nelle spalle e disse: "Non ho intenzione di accettare." e fece uscire abbastanza di malagrazia l'uomo dal suo padiglione.

Una volta rimasto solo, Virginio cominciò a rimuginare.

Un tuono roco e non troppo lontano gli annunciò che anche quel giorno una noiosissima tempesta di fulmini si stava avvicinando e tanto gli bastò per sentire di nuovo i brividi della febbre avvicinarsi.

Di quel passo sarebbe morto di inedia. Doveva pur fare qualcosa. Anche se non avrebbe retto a uno scontro diretto, poteva almeno impegnarsi in qualche spostamento strategico.

Così chiamò i suoi sottufficiali e annunciò: "Fate preparare i soldati. Ci spostiamo verso la fascia pedemontana."


 Giovanni Medici cominciava a prendere confidenza con la vita alla rocca. Era ormai in città da un mesetto e pian piano iniziava a farsi delle abitudini.

Presto suo fratello gli avrebbe scritto per comunicargli le commissioni da farsi nelle terre vicine, come responsabile degli affari della repubblica, ma per il momento il Popolano si sentiva libero di non far altro, se non ambientarsi.

Ambientarsi e tenere d'occhio la Leonessa di Romagna. Era parte del suo compito, farsi un quadro preciso della donna che governava su quelle terre, ma Giovanni doveva ammettere con sé stesso, in uno slancio di onestà, che il suo interesse spesso sfociava in campi tutt'altro che professionali.

Aveva notato che la Contessa Sforza usciva molto spesso a caccia, da sola. Presiedeva ogni riunione di Consiglio e non c'era quasi pomeriggio che non passasse dal Quartiere Militare e si addestrasse nel cortile della rocca assieme ai suoi armigeri. Per il resto faceva la vita spartana di un soldato e solo di rado la si vedeva interagire coi figli. Con sei dei sette figli, per lo meno.

Il fiorentino aveva sentito dire che il legittimo Conte, il primogenito, era rinchiuso in una stanza presidiata da uomini armati. Non si era mai avventurato in quell'ala della rocca, ma non aveva motivo per credere che non fosse vero.

Un'altra caratteristica aveva notato, della Contessa; ovvero che così come repentinamente prendeva decisioni, così a volte non ottemperava agli impegni presi, purché si trattasse di questioni di piccola importanza.

La prima sera passata da Giovanni alla rocca, per esempio, malgrado fosse stata lei stessa a dire che avrebbero cenato assieme, la Contessa non si era presentata a tavola e così aveva fatto per parecchi giorni.

Il pranzo a Ravaldino ricordava la distribuzione di un rancio militare per graduati, con una serie di pietanze lasciate a centrotavola, lasciando libero qualunque commensale di servirsi quanto e quando voleva, e dal salone entravano e uscivano di continuo membri della famiglia Riario, il castellano, gli armigeri e tutti quelli che in qualche misura avevano a che fare con la rocca. Ognuno si presentava all'ora che risultava più comoda a seconda delle necessità e per parecchio tempo Giovanni non riuscì a intercettare la signora di Forlì nemmeno una volta.

Quando era stato dal barbiere, il giorno in cui era arrivato, si era accorto che la sua presenza aveva incuriosito molti degli altri clienti.

Malgrado ciò, le chiacchiere che gli avventori della barberia si scambiavano, tra un'occhiata rivolta a lui e una interrogativa riservata al Bernardi, avevano quasi esclusivamente la Tigre come soggetto principale.

Si parlava di lei e delle tasse che aveva fatto abbassare, delle sue uscite per andare a caccia agli orari più strani e delle prede che immancabilmente portava alle cucine della sua rocca, dei lavori che stava facendo nel parco di Ravaldino – che si stava lentamente trasformando in un capolavoro con orti, piante da frutto, alberi da legname, una parte di bosco per la piccola caccia, e perfino una casetta dove riposare in caso di bisogno – della demolizione appena iniziata del palazzo dei Riario e dei reclutamenti continui di nuovi soldati, attirati dalle paghe generose e dalla possibilità eventuale di fare carriera a quel modo, dato che ormai gran parte del governo era passato dalle mani della vecchia nobiltà, andata distrutta alla morte di Giacomo Feo, a quelle dell'esercito. E queste erano tutte cose viste dai forlivesi con occhio abbastanza positivo.

Allo stesso modo, però, parlavano anche di argomenti molto diversi. Ricordavano della fine fatta dalla cameriera personale della Tigre – 'impiccata come un bestia' era uno degli epiteti più usati – e si interrogavano su quanti prigionieri fossero ancora vivi nelle celle di Ravaldino. Si domandavano quanti dei condannati fossero stati uccisi dalla Contessa di mano propria, quanti fossero morti semplicemente di stenti e quanti invece fossero stati affidati agli aguzzini, senza riuscire a sopravvivere agli interrogatori. Qualcuno si azzardava a fare il nome del Conte Ottaviano, ma subito il discorso si spegneva in un'aura di incertezza e velata paura. Si sfidavano a indovinare quanti amanti fossero già passati dal letto della Contessa dall'inizio dell'anno e con motti scurrili e camerateschi si auguravano a turno di essere il prossimo.

Solo quando si toccò quest'ultimo argomento, il Novacula diede segno di impazienza e sbottò: "E allora? La volete finire? Non vedete che il nostro caro ambasciatore è annoiato dalle vostre chiacchiere?"

Giovanni, che aveva teso l'orecchio per captare tutto il possibile, aveva fatto un'espressione un po' imbarazzata: "Ma no, non preoccupatevi..."

Ma Bernardi non l'aveva nemmeno sentito e si era rivolto con voce abbaiante ai suoi clienti per redarguirli: "Costui è un Medici! Un gran signore! Viene da Firenze! E voi state qui a tediarlo con i vostri inutili pettegolezzi!"

Il Novacula aveva così zittito i pettegoli della città, ma il fiorentino non aveva mai smesso davvero di ragionarci sopra e anche quel giorno d'aprile Giovanni continuava a ripensare alle voci sentite dal barbiere al suo arrivo a Forlì.

Molte erano risultate essere vere, come quelle circa la costruzione del parco e la demolizione del palazzo, ma su altre il Medici ancora aveva delle perplessità.

L'unica diceria di cui aveva avuto una prova abbastanza tangibile era quella riguardante gli amanti che si aggiravano attorno alla stanza della Tigre.

Seguendo l'invito della Contessa, il Popolano aveva preso alloggio alla rocca e gli era stata assegnata una delle stanze da poco rimesse a nuovo che, per puro caso, era adiacente a quella della Sforza.

Già tre volte, a tarda sera, mentre rientrava da una delle solitarie passeggiate che conduceva per conciliare il sonno e per tenere il ginocchio dolente in funzione, Giovanni aveva visto degli uomini entrare nella camera della Contessa.

Non erano affari suoi, quello lo sapeva, eppure tutte e tre le volte aveva avvertito un senso di profonda insofferenza nel pensare che quello che i sudditi della Tigre andavano a dire in giro fosse vero.

Ogni volta che era successo di vedere qualcuno entrare a quell'ora nella stanza della Contessa, quindi, il Popolano aveva preferito non rischiare di vedere o sentire altro ed era tornato sui suoi passi, ripercorrendo la strada appena fatta e tornando in camera solo dopo almeno un paio d'ore.


 "E cosa dovrei fare secondo te?" chiese Ludovico Sforza, facendo ondeggiare la lettera tenuta tra indice e medio.

Beatrice mise un momento da parte il ricamo a cui stava lavorando e ordinò con un gesto silenzioso ai due servi di andarsene.

Questi smisero di sistemare lo spuntino – a base di luganega e formaggio stagionato – che avevano preparato per i Duchi e lasciarono la stanza.

Appena furono da soli, senza più la scocciatura di doversi guardare da orecchie indiscrete, la Duchessa disse, seria: "Dispiace anche a me, ma credo che sia necessario mandare tua figlia da suo marito. Chi meglio di Bianca Giovanna potrà essere i nostri occhi e le nostre orecchie nella casa di Sanseverino?"

Il Moro strinse le labbra e si passò la punta delle dita sul dorso del suo nasone: "Non sarei tranquillo a mandarla là."

"Nemmeno io, ti dico. Lo sai che non vorrei." fece Beatrice, scuotendo la testa: "Ma è chiaro, ormai, che Galeazzo Sanseverino non è capace di capire la reale pericolosità di Francesco e Francesca Dal Verme. Tanto per dirne una, non va bene che permetta loro di frequentare i suoi salotti."

"Dice che lo fa perché si sente in colpa... In fondo occupa le loro case... Ci hanno vissuto fino a poco tempo fa..." provò a dire Ludovico, lasciando cadere la lettera del genero sul tavolino e poi riaffondando nella poltrona.

Aprile era dolce e chiaro a Milano e aveva spazzato via di colpo tutti i ricordi dell'inverno e degli strani temporali di saette che avevano terrorizzato i contadini e i religiosi. Dalla finestra appena aperta entravano vivaci e prepotenti gli odori della vita e le voci degli uomini del palazzo di Porta Giovia che affollavano il cortile, addestrandosi e lavorando come ogni giorno.

"In colpa, in colpa..!" esclamò Beatrice, perdendo la pazienza.

La giovane si alzò dal suo divanetto e raggiunse il marito, piantando le piccole mani sui fianchi, assumendo una postura degna di una suocera bellicosa: "Sanseverino ora è il legittimo proprietario di ogni pietra e di ogni angolo della buona metà di quei possedimenti. E tua figlia Bianca Giovanna la è dell'altra metà. Se i Dal Verme non accettano questo fatto, il problema è loro. E se vogliono farlo diventare un problema anche nostro, allora vanno fermati!"

Ludovico guardò la moglie con occhi sofferenti. Beatrice aveva ragione. Era troppo difficile capire cosa stesse accadendo a Bobbio e a Voghera. Galeazzo era eccessivamente vago e incostante nei suoi resoconti per essere ritenuto affidabile. Bianca Giovanna, invece, avrebbe saputo inquadrare all'istante i fratelli Dal Verme e avrebbe capito subito se si trattava di una minaccia o di un semplice fuoco di paglia.

"E va bene..." soffiò il Duca, poggiando i palmi delle mani sui braccioli della poltrona, sconfitto su tutta la linea: "Però aspettiamo ancora un po'. Prima voglio provare a chiedere in modo più esplicito a mio genero cosa sta combinando e, se anche questa volta ci deluderà, allora manderò da lui mia figlia."

Con un sorriso trionfante, ben sapendo di averla avuta vinta anche quella volta, Beatrice si andò a sedere sulle ginocchia del Moro e gli strinse le braccia al collo.

La Duchessa stava ancora bisbigliando parole segrete all'orecchio del marito, quando un servo entrò nella saletta senza annunciarsi.

"Che diamine c'è, adesso?!" scattò Ludovico, mentre Beatrice non accennava a lasciare il suo trono improvvisato.

"Una lettera urgente da Firenze, da parte del frate Girolamo Savonarola." spiegò il domestico, porgendo il messaggio al suo padrone.

Il Moro prese il pezzo di pergamena e poi disse al servo di sparire. Beatrice strappò di mano al marito la lettera e l'aprì, cominciando a leggerla.

Si trattava di una serie di rimproveri e vaneggiamenti del domenicano, che voleva indurre il Duca di Milano a più miti consigli, invitandolo a fare penitenza per i suoi peccati, in vista del flagello che si sarebbe abbattuto su di lui a breve.

"Ce l'ha con te perché sei nella Lega." parafrasò Beatrice, dando il messaggio al marito e mettendosi in piedi.

Si rassettò la turchesca e gli ordinò: "Rispondigli subito, dicendoti molto pentito dei tuoi peccati e ben disposto a essere un cristiano migliore. Scusati per averlo offeso con la tua condotta immorale, come la chiama lui. E poi predisponi anche per la partenza del nostro ambasciatore alla corte di tua nipote Caterina."

"Hai deciso chi mandare?" chiese il Moro, passando lo sguardo sulle farneticanti invettive di Savonarola.

"Sì. Non lo conosci e non è di nobile famiglia, ma è un uomo che sa il fatto suo e che saprà difendere i nostri interessi." spiegò Beatrice: "Gli ho detto che sarà il nostro oratore a Forlì e ha accettato."

Il Moro fece un cenno d'assenso, pienamente fiducioso nelle idee della Duchessa e poi la fissò pensoso, mentre la giovane andava alla porta, dicendo: "Voglio passare dal maestro Leonardo. Sono curiosa di vedere come procede quel suo ultimo affresco, quello dell'Ultima Cena..."


 Caterina si era appena messa a tavola, stremata da un'interminabile seduta di Consiglio sfociata in una mezza rissa, quando vide profilarsi sulla porta l'ambasciatore fiorentino.

Se in un primo momento si era sentita desiderosa di familiarizzare con lui, conoscendolo meglio e conversandoci per capire fino a che punto lo si potesse considerare un Medici, si era poi bloccata, cercando, anzi, di evitarlo il più possibile.

Non sapeva dire bene perché avesse sentito la necessità di comportarsi a quel modo, ma il suo istinto le aveva suggerito di tenersi lontana dal Popolano, almeno in un primo momento.

Forse, semplicemente, era la paura di fidarsi di nuovo di qualcuno. I suoi collaboratori godevano della sua fiducia, era vero, ma il senso di sintonia che aveva provato subito con Giovanni Medici l'aveva spaventata.

Dopo quello che era successo a Giacomo, proprio per mano di gente con cui si era sentita fin dal principio in amicizia, credeva fosse buona regola stare cauti.

Tuttavia, aveva fame e non aveva alcuna intenzione di alzarsi da tavola a stomaco vuoto e nemmeno poteva ordinare all'ambasciatore fiorentino di tornare nella sala da pranzo più tardi.

Seguì con lo sguardo l'uomo, che passò accanto a Bianca, che invece stava già andando via, facendole l'inchino e scambiando con lei qualche parola.

Caterina aveva notato con piacere che il Popolano aveva modi cordiali coi suoi figli, ma che non aveva cercato in alcun modo di accattivarseli. Li trattava con reverenza e gentilezza, ma non si prodigava troppo per catturare il loro benvolere. Non cercava di arruffianarseli per mettersi in buona luce con lei. Per un ambasciatore era già un requisito fuori dall'ordinario.

"Buongiorno, Contessa." fece Giovanni, quando arrivò alla tavola.

Caterina si stava servendo un po' di stufato di cervo e ricambiò con un semplice: "Ambasciatore..."

Oltre a loro erano presenti Mongardini, il castellano e un paio delle guardie che di norma facevano la ronda sui camminamenti.

Il fiorentino trovava quanto meno particolare la decisione di permettere anche ai soldati di sedere alla tavola della famiglia della Contessa, ma, non essendo lui il padrone di casa, ben si guardava dall'esprimere ad alta voce i suoi dubbi.

"Come vi state trovando a Forlì?" chiese Caterina, quando il Popolano si mise a sedere proprio accanto a lei.

Giovanni guardò ciò che la cucina offriva e rispose: "Bene, davvero. Ci vuole un po' per abituarsi, ma..."

"Non prendete lo stufato?" chiese la Contessa, vedendo come le mani del fiorentino fossero corse alle verdure e al pane.

Il Popolano fece una breve smorfia e spiegò, riluttante: "Vorrei, ma... Il mio medico era scettico, ma trovo che limitandomi nella carne e nel vino, la mia salute ne giovi."

Siccome le parole erano uscite dalle labbra dell'uomo una a una come denti cavati da un barbiere, Caterina preferì non fare altre domande in merito, ma cambiò discorso, cedendo all'impulso improvviso di chiedere: "Vi andrebbe di fare un giro della rocca e della città assieme a me? Mi sono resa conto di non aver fatto gli onori di casa come si deve. Magari con la mia guida, Forlì vi apparirà più accogliente. E sappiate che non è una cortesia che concedo a tutti gli stranieri. Fatelo sapere, alla vostra repubblica di Firenze. Dunque, accettate?"

Quasi strozzandosi con un pezzo di carota, Giovanni rispose immediatamente: "Sarà un vero piacere."

La Contessa osservò con attenzioni le dita sottili e lunghe del Popolano e i polsi, scoperti dalle maniche del giubbetto verde scuro che indossava quel giorno. Poi i suoi occhi, con lentezza, risalirono lungo le braccia, fino a raggiungere il viso e le iridi chiarissime che ancora rilucevano della sorpresa per la proposta appena ricevuta.

Mordendosi le labbra, la Tigre tornò a guardare il piatto che aveva davanti e intinse un pezzo di pane nero nel sughetto che colava dalla carne: "Se non avete altri impegni, potremmo andare già oggi, dopo mangiato." disse, sapendo che, se avesse dovuto posticipare troppo, forse alla fine ci avrebbe ripensato e avrebbe ritirato l'invito.

Il Popolano sorbì un piccolissimo sorso di vino e annuì, facendo ondeggiare un po' i riccioli: "Va benissimo, oggi sono libero."

Caterina accennò un sorriso e poi si dedicò allo stufato, onorando la cucina con famelica accuratezza.


 Bianca Riario, appena dopo aver lasciato il desco, era scesa fino nelle cucine, per chiacchierare un po' con alcune delle sue amiche, in particolare con le due giovani sguattere che di solito a quell'ora preparavano gli ortaggi da mettere nella minestra della sera.

Come aveva sperato, le trovò chine sul tavolone a tagliare a pezzi le verdure. Così si sedette accanto a loro e ascoltò per un po' le loro chiacchiere, cercando di capire di cosa stessero parlando e quando il discorso cadde sul nuovo ambasciatore fiorentino, riuscì finalmente a infilarsi nella conversazione.

"Lo trovo un uomo molto a modo." disse, ripensando come anche quel giorno il Medici l'avesse salutata con grande eleganza.

"Io lo trovo un uomo molto bello..!" ridacchiò una delle due sguattere, mettendosi una mano davanti alla bocca, come se avesse appena detto qualcosa di proibito.

"Per i miei gusti è troppo magro." ribatté l'altra, che era sulla ventina e portava i capelli ancora molto corti.

Era stata una schiava, ma la Tigre l'aveva riscattata. Solo che era passato ancora troppo poco tempo per permettere alla sua capigliatura di tornare agli antichi splendori.

Bianca le aveva chiesto cosa facesse, quando ancora non era stata comprata dalla Contessa e liberata, ma la giovane aveva solo detto: "Poteva andarmi peggio. Per lo meno mi era concesso dormire su letti di piume, anche se non chi con avrei voluto."

"Per te non ne va bene uno." la rimbrottò la prima sguattera, gettando nel calderone le carote e i cavoli tagliati a pezzi: "Uno è magro, uno è grasso... Come se potessi permetterti di fare la schizzinosa."

Bianca rise a quella schermaglia tra domestiche, ma quando la ex schiava commentò con grande mestizia: "Ma sì, hai ragione, non sono nella posizione di mettermi a fare la difficile. Una come me non la vorrà mai nessuno." il gioco si ruppe.

L'altra sguattera di cucina allungò una mano e consolò l'amica con un colpetto sulla guancia: "Dai, non è quello che intendevo. È solo che, diciamo, l'ambasciatore non deve piacere a te."

"E a chi dovrebbe piacere? A Sua Signoria?!" rise la ventenne, mentre l'altra le faceva eco.

Bianca si sforzò di unirsi alle risate, ma quella battuta, fatta senza malizia, la portò a ripensare ai fatti degli ultimi giorni e all'atteggiamento schivo di sua madre nei confronti del Medici.

Forse era sintomo di supponenza da parte sua, ma la ragazzina ormai pensava di essere capace di sondare le intenzioni e le emozioni della madre, per quanto ella sapesse celarle bene al resto del mondo.

All'improvviso ciò che la sguattera aveva detto per ridere, alle orecchie di Bianca non parve più un'ipotesi così assurda.


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