136. Rassegnarsi

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136.

Corse in casa, già catturata dal maleficio del dolore, dell'incubo depressivo.

Per la discussione e il dispiacere, l'emicrania era scoppiata con una violenza martoriante. Andò nella stanza degli ospiti e si chiuse a chiave.

Preferiva che Rúnhr pensasse che ce l'aveva con lui, piuttosto che la vedesse lì, incapace di stare ferma dal dolore, mentre lottava con la bestia feroce che le consumava il cervello.

A nessuno aveva mai lasciato capire a che livello ormai era, veramente.

Era rientrata proprio il giorno prima, dall'ennesima visita in un centro specializzato, il top dei top.

L'avevano maltrattata "Non c'è motivo perché lei possa avere un'emicrania del genere e da così tanti anni. La mando dallo psichiatra"

"Vuol dire che sto mentendo?"

"Certamente lei non è credibile. Perciò bisogna capire perché scrive queste cose."

Le buttò davanti una copia della descrizione, che aveva chiesto a Núha di redarre, specificando, minuziosamente, il tipo di dolore che provava e la frequenza, le aure, le varie modalità.

"Rilegga un po' le sue parole.Tutto questo non può essere vero" disse la dottoressa, in malo modo.
Lei scrive, oltre al resto, che la sua emicrania già inizia in cinque secondi, per un cucchiaino di un semplice alcolico, o in qualche secondo in più, per un comune caffè. Lei lo sa che il caffè fa passare l'emicrania? Non la fa venire....Lei perciò mente."

"E lei lo sa che il caffè è un veicolo per accelerare l'effetto di alcuni medicinali, fra cui anche quelli per mal di testa? Anzi della cefalea?
L'emicrania non è cefalea, ma è ben altra faccenda e si sa ben poco.

Io non chiedo miracoli, ma non mi offenda. Se lei vuole mi ricoveri una mezz'ora, e mi metta un monitoraggio, poi un caffè, o poche gocce di un alcolico e vediamo chi racconta bugie. Vuole, che proviamo, anche subito?"

"Ma..non è..il protocollo.."
"Ah..il protocollo..ma io non sono un protocollo..credo che se davvero lei volesse capire, dovrebbe seguire i segnali che può rivelarle il mio corpo..non un protocollo.

Anche mio fratello lo prendevano per matto, perchè ricoverato in ospedale si rifiutava, ostinatissimo, di prendere l'aspirina, dicendo che gli faceva venire la febbre.

E il primario.."Impossibile, l'aspirina fa abbassare la febbre. Non crederà di poter raccontare balle a me! Adesso le faccio mettere un monitoraggio e lei prende l'aspirina, sotto i miei occhi."

Detto fatto. Gli danno l'aspirina e alla velocità della luce, gli viene 41 di febbre, poi in pochi minuti la temperatura precipita sotto la norma. L'hanno salvato per il rotto della cuffia, ha avuto un collasso spaventoso.
Quindi, chi ha detto che l'aspirina fa solo abbassare la febbre?

Quel giorno hanno scoperto qualcosa.

Lei oggi scopre, da me, che alcool e caffè possono scatere l'emicrania.
Ci studi su, invece di negare. Se è davvero un dottore.

Núha era abituata a questa tecnica dei medici, colpevolizzare lei, perché non capivano cosa aveva.
Ma era sempre stato fatto con garbo. Stavolta le fu detto con strafottenza e cattiveria. Quindi non ebbe peli sulla lingua.

"Vede dottoressa, non deve ribaltare una mancanza attuale, della diagnostica medica, su di me.
Non è colpa mia, se soffro in un modo sempre più violento.
Non avete una risposta, capisco. Ma però, non si può negarlo.

'Io' non posso negarlo. Non devo, è qui, mi sta uccidendo.
Avrebbe dovuto dirmi che, allo stato delle cose, la scienza non capisce ancora.
Questo sarebbe stato accettabile, 'e credibile', professionale. Educato.

Ma dirmi che sono una pazza bugiarda, bisognosa di psichiatra, mi spiace, ma non è credibile.
'Lei' mente, non io. Non ammette l'incapacità, della scienza, a trovare una risposta. E allora dice a me che sono pazza. Troppo facile. Troppo crudele.."

Quel giorno, cominciò ad affondare veramente nell'assurdo, nell'ossessione.
Non si trovava proprio spiegazione al suo male. Ormai capì che c'era una sola via, rassegnarsi.

Vista la velocità con cui aumentava il problema, pensò che non le restava molto tempo. Sarebbe morta spontaneamente, non si sa di ché.

Quindi doveva resistere a tutti i costi, per arrivare a quando Lànghrian fosse stato indipendente, con tutto a posto, per la sua vita.
Cioè, bisognava resistere il più a lungo possibile.
Doveva sperare che il dolore rallentasse un poco, o trovare un medicinale più forte, più adatto. E cercare un modo di farcela. Ma non era più possibile con il suo lavoro di giornalista.
Troppa concentrazione, troppe responsabilità, troppi spostamenti.

"Devo scovare, a tutti i costi, una soluzione" pensò mentre mamma Hellok cominciava ad apparirle, ancora evanescente, fra il sopore oppiaceo della medicina che aveva preso.

Helòr - l'Oro di Hellok Where stories live. Discover now