Capitolo 140

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Il canto del gallo svegliò Connor di primo mattino, l'indomani rispetto alla visita al villaggio di Araumi.

Un leggero peso gli accaldava lo stomaco e un accenno di emicrania iniziava a tormentarlo, sia per l'orario non proprio tardivo, sia per gli incubi che ancora lo avevano attanagliato.

Si accorse solo a posteriori che quel peso non era altro che il braccio delicato di Satyria, avvolto attorno al suo corpo fino a terminare con la mano poggiata sul morbido materasso di lattice.

Doveva essersi di nuovo rifugiato accanto a lei in piena notte, nel suo letto.

Stavolta non ricordava il momento in cui esattamente si era accostato alla compagna, ma il sogno ricorrente, le immagini macabre e distorte, l'odore del sangue vivo che inondava quello spazio rurale, i lembi di pelle squarciati... quelli li rimembrava anche fin troppo bene.

Satyria lo accoglieva sempre senza problemi ogni volta che entrava nel suo giaciglio per cercare calma, conforto nel calore e nella sicurezza che lei gli offriva. Nella sua accettazione incondizionata, e nel suo amore.

A volte, quando erano entrambi abbastanza lucidi, lei si limitava a sussurrargli: hai paura, senza nemmeno domandarglielo.

Sapeva che era così, la sua era una constatazione, un tentativo di fargli affrontare le sue emozioni, di lasciare che le ammettesse in sincerità. Voleva che capisse di poterselo permettere quando era insieme a lei.

Perché Satyria avrebbe sempre accettato Connor, in qualunque caso.

La paura derivava dal peggiore degli incubi nato dalla più traumatica delle sue esperienze. La morte di sua madre, quando era ancora poco più che in fasce.

Era in quel giardino piacevole e libero che Padre Isaac lo aveva trovato. Quello in cui suo padre, dopo l'ennesimo scatto d'ira, aveva posto fine alla vita di quella donna che Connor ricordava così gentile da fargli male al solo pensiero.

Era tutto sfocato nella sua infanzia, ma le ricordava bene le grida ricorrenti. I litigi. La violenza. Quelle ombre macabre sulle pareti di casa che sembravano eseguire danze tortuose e letali.

Sua madre non era stata uccisa in fretta, e nemmeno in maniera pulita. Il suono orrendo di quelle coltellate era ancora nitido nei suoi incubi. Come l'immagine orrenda e martoriata di quella donna tanto buona, da cui rimembrava solo amore.

Quel sentimento lo aveva ritrovato solo nelle braccia di padre Isaac, quando l'aveva trovato su quel prato, battezzato nel sangue.

In quelle di Satyria, quando lasciava che lui si placasse avvolto dal calore del suo corpo, nelle notti peggiori.

Ma non erano la stessa cosa. Non avrebbe mai conosciuto di nuovo l'affetto di una madre.




Strizzando gli occhi impastati un altro paio di volte, il ragazzo si mise in piedi lentamente e assunse un'espressione colma di sprezzo per quel brusco risveglio.

"Dannato vecchiaccio di chiesa, lui e quegli uccellacci che alleva sul retro dell'abbazia." Sbottò, continuando su quella falsa riga per almeno dieci minuti, mentre si preparava per uscire fuori.

Attraversò dunque la porta di ingresso e lasciò che la frescura mattutina gli pizzicasse le guance per aiutarlo a svegliarsi del tutto. I piedi nudi erano solleticati dagli steli d'erba sotto di lui. Gli piaceva la sensazione del prato che gli sfiorava la pelle, in natura.

Nei luoghi puliti, aperti e larghi dove poteva ammirare il cielo si sentiva a suo agio. Assaporava la libertà alla quale si sentiva devoto, che vedeva come un bene inalienabile. La stessa che provava in quel prato della sua infanzia, nei suoi sogni, prima che diventassero incubi.

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