Capitolo 139

28 5 143
                                    

Tra i fitti ramoscelli in prossimità della cima di un sempreverde, disteso con le mani intrecciate dietro la nuca a osservare gli spicchi di cielo oltre gli spazi tra le fronde, un ragazzino dall'aria annoiata riposava pigramente, cullato dal frinire di qualche cicala nascosta nella vegetazione e dal leggero fruscio di contorno delle foglie.

Era una giornata d'estate, calda e secca ma non afosa. Sia il clima che l'atmosfera erano piacevoli e il giovane era immerso completamente in quel pezzo sereno di giornata, quel prezioso stralcio di vita in cui nessun pensiero gli occupava la mente.

La chioma a dir poco ondulata di capelli muschiosi quasi si mimetizzava con quella dell'albero sul quale si era arrampicato per sostare, dopo una giornata passata a lavorare, oltre che ad allenarsi duramente.

Il pomeriggio iniziava a sfociare nel vespro, come testimoniava la distante macchia rosata dall'alone aureo che prendeva forma all'orizzonte, scurendo via via il cielo limpido della calda stagione.

"Connor!"

Una voce argentina subentrò fra i suoi pensieri. Proveniva dal basso e si avvicinava sempre più.

Il ragazzo capì al volo di chi si trattasse, d'altronde delle due persone con cui viveva, solamente una poteva possedere quel tono così infantile.

Sfilò le esili braccia dalla nuca, voltandosi verso il basso a osservare l'intrusa che aveva interrotto il suo momento di quiete. La piccola coda ramata guizzava qua e là quasi come a voler esprimere il dissenso che la sua amica d'infanzia provava in quel momento.

"Volevi qualcosa, Satyria? Mi stavo rilassando. Oggi è proprio una bella giornata, non trovi?" La salutò, noncurante.

Sul viso della ragazzina venne a formarsi un broncio che mostrava il suo disappunto, così come l'espressione contrariata negli occhi violetti simili a due ametiste scintillanti.

"Uffa, dopo gli allenamenti e i lavori all'abbazia mi piacerebbe giocare insieme ogni tanto, ma te ne scappi sempre sopra agli alberi e non riesco a raggiungerti. Secondo me lo fai apposta." Mugugnò con aria ferita.

Connor sospirò, prima di sollevarsi sulle punte dei piedi e balzare con agilità giù dal sempreverde, accanto alla compagna.

"Se proprio ci tieni a inseguirmi, allora impara anche tu a scalare i rami, dolce Satyria. Padre Isaac vuole insegnarci quella roba chiamata Kaika, quindi come base non sarebbe male."

"Non sono dolce." Protestò lei, socchiudendo gli occhi. "E sarebbe carino se non scappassi da me, di tanto in tanto. A volte ci dormi persino, sugli alberi. A me invece non piace arrampicarmi in alto come fai tu. Non so proprio cosa ci trovi..."

Gli occhi di Connor si illuminarono in un lampo. "Mi fa sentire libero. Lontano da ogni problema che c'è al di sotto, senza alcun vincolo. È così che mi piacerebbe vivere. Infatti, non potrei mai essere come il Padre."

"Lui aiuta le persone, il suo non è un vincolo. È ammirevole." Rimbeccò Satyria.

"È solo stupido. Tutta quella gente che lui ospita all'abbazia si approfitta della sua gentilezza. Dovrebbe rendersene conto, invece offre loro i nostri viveri e il nostro spazio. Si limita per gli altri, non ha senso." Il tono del dodicenne si inacidì ma alla fine, troppo poco voglioso di alterarsi, decise di lasciar perdere. Forse anche per la punta di rassegnazione che vide nello sguardo di Satyria.

Gli faceva male ogni volta, quando assumeva quell'espressione.

Come se fosse abituata a vederlo diffidare degli altri, inasprirsi per la bontà del loro tutore. Perché Satyria conosceva le condizioni in cui Connor versava, prima che lei e quell'austero quanto rassicurante reverendo lo trovassero e accogliessero con loro. Sapeva quanta poca fiducia avesse nell'umanità.

GuardiansDove le storie prendono vita. Scoprilo ora