"A quanto pare, proprio nulla." Abbassò tristemente il capo. "Allora a tra poco." Recuperò uno stanco sorriso, e uscì dalla stanza.




Candidus rimase sola, così gettò via il libro di poesie che aveva tra le mani e uscì nel giardino dell'edificio, per montare il turno di guardia.

Il luogo che lei e Satyria stavano sorvegliando era piuttosto vecchio, anche se enorme.
Si trattava di una tenuta abbandonata che era appartenuta a dei nobili decaduti: i Radius, la famiglia di Candidus. Era stata lei stessa a suggerire quel posto come nascondiglio più indicato in cui stanziarsi, non che ci fosse affezionata.
Non ci aveva mai nemmeno vissuto, l'aveva solo ricevuto in eredità dopo l'estinzione dei Radius per mano dello Shihaiken.

Il palazzo era molto alto e ampio, dipinto di bianco e con un largo tetto spiovente. Si trovava in una zona piuttosto isolata e paludosa di Southfield, quasi sempre coperta da una fitta nebbia.
La città più vicina non poteva neanche essere definita tale, si trattava semplicemente di bassifondi sporchi e puzzolenti che a Candidus avevano fatto venire il voltastomaco. Aveva sentito che Peste Nera dirigeva un certo affare lì, ma non si era degnata di indagare oltre. Per quanto la riguardava, meno sapeva su quel tizio e meglio era.

Tutto intorno all'edificio si estendeva un grande giardino incustodito in cui le erbacce regnavano ormai trionfanti, delimitato da un austero cancello grigio e delle sbarre alte e arrugginite.

Candidus era sotto un albero verde e rigoglioso, una mano appoggiata sullo spesso tronco castano. "Non è che qui ci sia molto da sorvegliare. Come potrebbe qualcuno trovare questo posto?" Si chiese, sottovoce.

Ripensò a ciò che Satyria le aveva domandato poco prima, riguardo Ater.

"E se ricordasse? Farebbe differenza per te, Candidus?"

La ragazza abbassò lo sguardo, il dolore impresso negli occhi. Torse forte il tronco, graffiando violentemente il legno con le unghie.
"Che differenza potrebbe mai fare...? Cancellerebbe quello che mi è stato fatto?" La rabbia deformò il suo viso angelico, delle lacrime le scivolarono lungo le guance pallide.

Immagini tenebrose di momenti che non riusciva a cancellare dalla memoria la turbarono profondamente.

Le balenò in mente quella stanza dalle luci soffuse e rosse, le grida, i lamenti, le suppliche. Il sangue.

A quei ricordi traumatici, iniziarono a sovrapporsi quelli dolci dei momenti passati con Ater, quando erano bambini.
I felici giorni d'infanzia, che per lei erano stati come una sfocata fiaccola lontana in una caverna buia, fredda e infinita.




Camminando con fare indolente e un'espressione annoiata, il ragazzino dai lisci capelli neri avanzava tra le strade della periferia di Cobalt, in un sentiero delimitato da alti alberi con parecchi aghi di pino sul terreno.

"Uffa! Mandare proprio me a comprare la frutta quando abbiamo un maggiordomo... poteva andarci Ernest, no? È il suo lavoro! Devi muoverti di più, ma che vuole?" Si lamentava di tanto di tanto, lungo il cammino. "Stavo così bene sulla mia amac-uooh!"

Tozzò contro qualcosa di piccolo e morbido, che cadde al suolo con un tonfo, davanti a lui.

"Ehi, ma vuoi stare..." il ragazzino si bloccò.

La cosa su cui era inciampato era una bambina dall'aspetto estremamente fragile, un viso tondo e roseo, e dei lunghi capelli bianchi che le arrivavano fino alla schiena, ricadendole anche lungo le spalle come fili di seta.
Lo guardava con aria ferita, come se fosse sul punto di piangere.

"... attenta? S-scusa, bimba. Non ti avevo vista."

"Scemo! Mi hai fatta cadere perché sei uno scemooo!" Gli inveì contro la bambina, trattenendo le lacrime.

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