Sic transit gloria mundi

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Sic transit gloria mundi

Inghilterra, Plymouth, 7 agosto 1815

A bordo della lancia che lo stava trasportando verso la Northumberland, una nave da guerra più adatta della HMS Bellerophon alle lunghe traversate, Napoleone guardava corrucciato le piccole onde del mare brillare sotto il sole di agosto e infrangersi sullo scafo. Ogni tanto, rivolgeva un'occhiata gelida alle decine di civili che, da altre lance galleggianti a distanza di sicurezza, erano venute a godersi lo spettacolo del perturbatore della pace universale che se ne andava in esilio, così da non nuocere più al mondo.

Nella mente, gli si riaffacciavano, rapidi, i ricordi delle ultime settimane in cui tutto era precipitato.

Tornato a Milano, alla fine di giugno del 1815, allo scopo di organizzare la campagna difensiva programmata all'indomani del disastro di Waterloo, era stato costretto dal Senato e dal Governo a una seconda abdicazione.

Essendogli giunta notizia che sia Re Luigi XVII di Francia sia Re Federico Guglielmo di Prussia ne avevano chiesto l'estradizione, l'ex Imperatore era fuggito di notte, con l'intento di riunirsi all'esercito che aveva lasciato nei Paesi Bassi, per, poi, partire alla volta degli Stati Uniti, dove avrebbe fatto lo scienziato, almeno per i primi tempi.

Arrivato al porto di Ostenda, non si era potuto imbarcare, dapprima, perché il mare non era favorevole e, successivamente, perché gli inglesi avevano organizzato un blocco navale. Nel timore di essere catturato dai prussiani che lo avrebbero sicuramente fucilato, il 15 luglio 1815, si era consegnato agli inglesi, ben sapendo che da loro non sarebbe stato ucciso né imprigionato.

A bordo della HMS Bellerophon, era stato trasferito a Plymouth, con promessa di essere inviato in una tenuta di campagna in territorio inglese. Ciò che non gli era stato subito detto è che la tenuta di campagna cui era destinato si trovava nella remota isola di Sant'Elena, uno scoglio di centoventi chilometri quadrati, sito millenovecento chilometri a ovest della costa africana, all'epoca dominio britannico.

D'un tratto, gli occhi di colui che era stato l'uomo più potente d'Europa si incrociarono con quelli di colei che aveva allontanato per sposare la figlia dell'Imperatore d'Austria, col risultato di fare la figura del parvenu e di essere abbandonato da entrambi.

Dapprima, pensò a un'allucinazione, frutto della costernazione e della stanchezza, non parendogli possibile che ella fosse giunta sin lì e che, ora, sedesse su una lancia a pochi piedi da lui. Guardò meglio e dovette ricredersi. Era proprio lei, l'amore della vita che aveva sacrificato all'ambizione e alle menzogne della gloria. Provò un tuffo al cuore mentre ruotava la testa, per non perdere il contatto visivo e gli parve che anche lei fosse commossa mentre lo guardava fisso, di quella commozione che conosceva bene, per avergliela vista dipinta in viso tante volte, dopo che aveva pianto.

Si guardarono in silenzio e per l'ultima volta Napoleone Bonaparte e Joséphine de Beauharnais, finché la lancia giunse sotto la Northumberland e l'equipaggio si alzò in piedi, interrompendo per sempre quell'ultimo, muto dialogo.

The fault, dear Brutus, is not in our stars, but in ourselves, that we are underlings

(William Shakespeare, Giulio Cesare, Atto I, Scena III, Versi 140 – 141)

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Belgio, settembre 1815

In un gazebo di marmo abbellito da fiori e rampicanti, Oscar e André discutevano pacatamente, come spesso capitava loro di fare in quelle lunghe giornate di debolezza e immobilità.

Ospiti di una famiglia nobile belga che, come altre, aveva aperto le porte di casa agli ufficiali feriti, stavano trascorrendo il terzo mese della convalescenza di Oscar.

La leonessa di FranciaWhere stories live. Discover now