Magnificat

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Magnificat


Duomo di Milano, 15 agosto 1811


L'anima mia magnifica il Signore

e il mio spirito esulta in Dio,

mio salvatore,

perché ha guardato l'umiltà

della sua serva.

D'ora in poi tutte le generazioni

mi chiameranno beata.


La Corte imperiale era schierata nei posti d'onore, in un palco a più livelli innalzato nel Duomo. L'Imperatore e l'Imperatrice sedevano su due troni sormontati da un baldacchino.

Assistevano tutti alla messa solenne dell'Assunzione, festività che coincideva con il genetliaco di Napoleone.
Era desiderio di costui che la quarantaduesima ricorrenza della propria nascita fosse celebrata con sfarzo e solennità sotto il profilo sia civile sia religioso. Malgrado, infatti, egli non fosse mai stato particolarmente osservante e avesse preso innumerevoli provvedimenti contro la Chiesa, i conventi e gli enti ecclesiastici, giungendo al punto di imprigionare il Papa, era fermamente convinto che la religione fosse un fattore d'aggregazione importante per i popoli e che questi non fossero maturi per rinunciarvi. Né la gente avrebbe accettato un culto posticcio, inventato ad hoc, come l'esperienza fallimentare dell'Essere Supremo di Robespierre aveva dimostrato nel periodo in cui questi aveva ricoperto la carica di Ministro di Giustizia. Se voleva regnare, doveva farlo con l'avallo della religione, adattando il culto già esistente alle sue esigenze, come, del resto, tutti i regnanti avevano sempre fatto prima di lui.

In quell'occasione, poi, era di fondamentale importanza dare un'immagine di forza e di maestà trionfante e invitta, perché le cose non stavano affatto così.

Lo Zar Alessandro, incitato dalla corte e dal suo entourage di nobili, era intenzionato a riprendere le armi e a infrangere gli accordi di Tilsit. Già adesso, numerose clausole di quei patti non erano rispettate e il blocco continentale contro l'Inghilterra era rimasto quasi sempre lettera morta. La Prussia, umiliata e schiacciata da sanzioni pesantissime, era pronta a schierarsi contro di lui alla prima occasione e lo stesso suocero Imperatore non lo avrebbe sostenuto a lungo, quando il vento fosse cambiato. Nella penisola iberica, Wellington, di vittoria in vittoria, stava mettendo in difficoltà i Marescialli dell'Impero mentre la Francia meridionale era stata riconquistata dai de Jarjayes e dal giovane Girodel.

Anche all'interno dell'Impero, i nemici non mancavano e con sempre maggiore frequenza la Polizia lo metteva al corrente di nuovi complotti per deporlo. Un territorio così vasto avrebbe avuto bisogno di azioni pronte e mirate in ogni circostanza, ma lui era soltanto uno e non poteva essere ovunque.
L'erede tanto atteso e agognato non era stato sufficiente a mettere al sicuro la dinastia dei Bonaparte e, dopo i primi festeggiamenti, il popolo si era quasi scordato del bambino. Egli, invece, lo amava teneramente, tentava sempre di ritagliarsi dei momenti per stare insieme a lui e aveva stabilito che, sin dalla primissima infanzia, gli fosse impartita un'educazione militare, volta a farne un uomo di comando forte e autorevole.


Grandi cose ha fatto in me

l'Onnipotente e santo è il suo nome:

di generazione in generazione

la sua misericordia

si stende su quelli che lo temono.


L'inquietudine che provava era crescente. Doveva ammettere, con riluttanza, che non era più lo stesso uomo di Marengo o di Austerlitz. Non era lo stesso giovane ufficiale che aveva invaso l'Egitto e la Siria. Ora, il fisico era imbolsito, il capo era stempiato e la propria risposta al sovraccarico di impegni e di fatica non era quella di prima. Avrebbe avuto bisogno di rigenerarsi come l'araba fenice, ma quelle erano soltanto leggende.

La leonessa di FranciaWhere stories live. Discover now