CAPITOLO 20 - I

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Trentesimo giorno di novembre - sera

– Io mi annoio.

Hi sbuffò. Aveva trascorso l'intera giornata a sovrintendere i lavori di scavo coi nervi a fior di pelle. Le parole di quell'uomo della tribù di Ya le erano ronzate nella testa per tutta la giornata impedendole di concentrarsi e mostrandole ombre che scivolavano furtive in ogni anfratto. Era stanca, affamata, infreddolita e nervosa, e l'ultima cosa che aveva voglia di sorbirsi erano i piagnistei di sua sorella. – Ricama – rispose distratta mentre le schiave si affrettavano attorno a lei. – Ti piace, ricamare.

– Mi annoia ricamare – sbuffò Hao. – Non c'è nessuno con cui parlare, qui.

Hi si sedette sullo sgabello per farsi levare gli stivali. – Non c'è Liang? Non ha nulla da fare, potrebbe farti compagnia.

– Volete un massaggio, tai? – domandò la schiava ai suoi piedi. – Faccio intiepidire l'olio di lino.

– No, è quasi finito e non voglio sprecarlo. Mi farò bastare l'acqua del bagno. Allora, – insistette poi, – che ne è di Liang?

– Non vuole stare con me – piagnucolò lei. – Vuole stare solo con Gaoxi. Parlano, parlano, parlano, dicono un sacco di stupidate, e poi le ho viste che si baciavano. Lì sotto.

– Non dire scemate.

– È vero, le ho viste io. Liang era tutta nuda e...

– Piantala. Non si guarda nei giacigli degli altri. – disse Hi con severità. Non aveva mai avuto figli, ma non doveva essere molto diverso avere a che fare con un bambino piccolo.

– Non erano nel giaciglio, erano...

– Se Liang preferisce Gaoxi – tagliò corto Hi – forse lei non è lagnosa come te.

– Non la bacerei lì sotto, io! Puzza! E poi non sono lagnosa!

– Lo sei. Attenta al maglione, – disse alla schiava, – il feltro è consunto. Se vuoi fare qualcosa, Hao, fila della lana di yak e fabbricamene uno nuovo.

– Sei solo capace a dare ordini.

– E tu sei fastidiosa. È pronto il bagno?

– L'acqua è calda – rispose la schiava drappeggiandole lo yufan sulle spalle nude. Senza Zhuyao non aveva più occasione di indossarlo, e usarlo come veste da camera era un buon modo per onorare la memoria del marito.

– Non vedo l'ora... vuoi lavarmi tu, Hao?

– Ti ho già detto che non sono la tua schiava. – Imbronciata, le braccia conserte e la testa rincagnata tra le spalle, Hao se ne stava accanto ai tendaggi che nascondevano la finestra.

Hi sospirò, si allacciò la vestaglia e le andò vicino. – Che c'è, sorellina? Sei triste? – Le toccò la spalla, ma Hao si sottrasse e solo dopo qualche momento annuì.

– È brutto, qui – mormorò poi. – Buio, e triste. Voglio tornare a casa.

Hi si fece più vicina, e questa volta la sorella non si sottrasse all'abbraccio. – Torneremo, Hao, te lo prometto, ma prima dobbiamo terminare il huilai. Presto la via sarà di nuovo libera, e scenderemo a valle, e poi tornerà la primavera e tutto sarà più bello.

Hao tirò su col naso e si strinse ancora di più nelle spalle. – Mi annoio, e mi sento sola.

Hi sospirò nuovamente. – Non posso mettere su una corte solo per farti compagnia, Hao. Non siamo più nel palazzo imperiale, le donne della casa hanno molto lavoro da svolgere, ora che gli schiavi sono tutti impegnati nello scavo. Abbi pazienza, ti prego.

Hao piangeva sommessamente, sussultando con le spalle. Hi la strinse forte per qualche momento, poi l'abbandonò. Hao era come una bambina, quei pensieri sarebbero svaniti non appena qualche cosa avesse attirato la sua attenzione.

– Vai a cercare Gaoxi e Liang – ordinò a una delle schiave. Ci avrebbero pensato loro, a distrarre Hao mentre lei si occupava delle cose importanti, come far fronte a una rappresaglia da parte della tribù di Chéng per l'uccisione di Daomai.



Dal diario di Megan Tyrre

Erano state le settimane più strane della mia vita.

Ero passata dall'essere schiava senza alcuna speranza di libertà ad uno stato in cui mi era permesso andare dove volevo, ma senza avere un vero e proprio posto dove andare, libera ma di fatto prigioniera della fortezza e delle circostanze. Senza compiti o incombenze, avevo finito per trascorrere la maggior parte del tempo nel mio appartamento, con Gao-shi.

Perlopiù, parlavamo. Gao-shi mi insegnava con pazienza i segreti di quella misteriosa, complessa lingua ed io facevo il possibile per assorbirla e padroneggiarla, perdendomi tra suoni che la mia lingua si rifiutava categoricamente di emettere e sottigliezze di pronuncia che rischiavano di trasformare una frase innocente in una minaccia di morte. Nello stesso tempo, ritenevo giusto fare la stessa cosa per lei, che, pur faticando quanto me nella pronuncia, imparava invece in fretta la nostra più semplice e scarna grammatica, dimostrandosi un'allieva sicuramente migliore di me.

Spesso queste lezioni finivano tra le lenzuola. La prima volta che avevamo fatto l'amore mi ci ero abbandonata senza pensare, troppo stordita dagli eventi recenti per capire che cosa stessi facendo, ma quando, pochi giorni dopo, Gao-shi aveva lasciato cadere la spugna per accarezzarmi tra le gambe durante il bagno, l'avevo lasciata fare con la curiosità di scoprire quanto potessi sentirmi coinvolta a mente fredda. Mi ci vollero ancora diversi giorni e diversi orgasmi prima di convincermi a lasciarmi andare con naturalezza, ma accettai abbastanza in fretta l'idea che le sensazioni che lasciava l'amore di una donna fossero quasi paragonabili a quelle che provavo con Gaus, e infinitamente minori i sensi di colpa che sarebbero stati l'inevitabile strascico di una relazione con un altro uomo.

Il breve tempo che mi avanzava lo impegnavo rinverdendo le lezioni di scherma di mio padre. Le camerate che avevano ospitato le compagnie della guarnigione erano deserte, e nessuno badava a me. Avevo trovato armi e abiti adatti e, nel silenzio echeggiante del grande salone, avevo cominciato a tirare. In pochi giorni avevo ripreso dimestichezza con la sabra, più sottile e leggera della spada d'ordinanza dei soldati, e cominciato anche a divertirmi. Non avendo un avversario non potevo compiere altro che movimenti simulati, sequenze di posture buone solo per sciogliere i muscoli e tanto efficaci quanto le figure su un libro in caso di un vero scontro, ma mi ci divertivo da matti. Mentre le mie membra parevano ricordare da sole i passi e i movimenti, la mente volava con rimpianto ai giorni della mia adolescenza e alle lezioni di mio padre, così tanti anni prima. Mancavo da casa ormai da molti anni, ma mai come in quelle ultime settimane mi ero domandata se avrei mai più rivisto i miei parenti.

Solo quell'immensa camerata e le attività che vi praticavo riuscivano a restituirmi un po' di pace. L'eco della presenza dei soldati vi permaneva come un fantasma, e mi ci sentivo avvolta e protetta. Non avevo detto a nessuno di quegli esercizi, non volevo che Hi tai li scambiasse per un qualche tipo di minaccia, e solo Gao-shi era stata messa al corrente della cosa.

Ero nel bel mezzo di una sequenza, quando un richiamo mi fece sobbalzare e quasi inciampai nei miei stessi piedi.

– Liang tai. – Gao-shi si sbracciava per attirare la mia attenzione, e cadde prostrata quando mi avvicinai. Trovavo quella cosa profondamente imbarazzante, ma non c'era verso di farle capire che con me non era necessario: gli ordini di Hi Tai erano indiscutibili, e anche Gao-shi non poteva fare altro che obbedire.

Fingendo di volermi riposare, tergendomi il sudore dalla fronte mi accovacciai, così che lei non dovesse sentirsi troppo umiliata. – Che succede?

– Hi Tai vuole parlarci.

Impallidii. – Perché?

Loth - parte terza: AriaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora