Capitolo 63

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"Attenzione
alle paure del giorno.
Amano rubare
i sogni
della notte"
FABRIZIO CARAMAGNA

Con lente falcate raggiunge il nostro tavolo lasciandoci totalmente sbigottiti di fronte alla sua figura slanciata.
Axel stringe talmente tanto i pugni che le nocche hanno ormai assunto una tonalità biancastra e il suo volto è velato da una rabbia indescrivibile.

«Miriam posso parlarti?»
Andrea si avvicina di qualche altro passo, come se non fosse mai successo nulla; come se non avesse abusato di me e dei miei sogni, come se non avesse strappato con forza la mia dignità.
Sto combattendo con tutta me stessa contro la voglia di piangere e di urlare davanti al mostro che mi ha strappato l'anima e l'ha fatta in piccoli pezzi.

Non faccio nemmeno in tempo a rispondere che Axel si alza e si pone davanti a me come uno scudo.
Rapidamente posa le sue mani sul colletto della camicia sgualcita di Andrea e comincia a strattonarlo violentemente.
«Devi starle lontano, hai capito?
Non devi nemmeno pensare di avvicinarti a lei o ti ammazzerò con le mie mani, puoi giurarci»
Gli occhi di tutti i clienti sono posati su di noi, Axel è un concentrato di rabbia pronto ad esplodere.
La sua mascella scatta colta da spasmi incontrollati, mentre i suoi occhi sembrano scurirsi ad ogni piccolo movimento del suo petto.

Nessuno interviene, tutti restano in silenzio e si godono la scena come se si trovassero in una scarsa sala di un cinema.
Andrea non parla, semplicemente fissa Axel negli occhi.
Non ha paura, si legge dal suo sguardo che le minacce di Axel non lo scalfiscono nemmeno un po'.

«Ehi bodyguard, calmati.
Volevo solo parlarle.
Anche se devo ammettere che non mi dispiacerebbe scoparmela di nuovo mentre mi prega di smetterla»
Eccolo lì, il mostro è tornato.
Mi spaventa come cambi atteggiamento passando da una povera pecorella smarrita ad un lupo pronto a sbranarti.

Ho lottato con tutte le forze, ma mi accorgo di aver perso non appena sento le lacrime scendere copiosamente dal mio viso; l'enorme senso di vergogna che avevo provato in quei giorni si posiziona sul mio cuore come un enorme macigno impedendomi di respirare.
Resto inerme, seduta, senza riuscire a pronunciare nessuna parola, senza riuscire ad urlargli in faccia che spero di vederlo morto per tutto il male che mi ha fatto, senza riuscire a dirgli che spero che un giorno possa provare tutto il dolore che ha fatto provare a me.

Axel è ormai fuori controllo.
Al suono di quelle parole si avventa su di lui e comincia a colpirlo ripetutamente in viso, assesta un colpo dopo l'altro sotto lo sguardo attonito della gente che ci circonda.
Vorrei fermarlo, vorrei dirgli che non vale la pena finire nei guai per una persona del genere ma le mie gambe sembrano cementate a terra.

«Axel ti prego fermati» riesco finalmente ad urlare tra un singhiozzo e l'altro, senza nessun risultato però.
Il mio sguardo si sposta lentamente dalle mani insanguinate di Axel al viso tumefatto di Andrea che ride diabolicamente dopo ogni colpo ricevuto.
Ripenso a quella precisa sera in cui Andrea reagiva esattamente come in questo momento.
Poi ripenso a quando l'ho conosciuto, a come sembrava diverso, a come non avrei mai pensato che potesse compiere un'azione del genere.

«Axel basta!» urlo, tirando fuori tutta la voce che ho.
Si volta per un solo istante a guardarmi, delle goccioline di sudore colano dal suo viso, i suoi occhi sono scavati e completamente oscurati dalla rabbia.
Andrea approfitta di quel piccolo istante di distrazione e capovolge la situazione, ritrovandosi a carponi su Axel e iniziando a sua volta a colpirlo in volto.
Con le ginocchia gli blocca le mani, impedendogli di difendersi.

Senza pensarci due volte intervengo, avventandomi con forza su di Andrea.
«Aiutatemi vi prego» urlo alla gente seduta ai rispettivi tavolini, ma nessuno si alza.
Un dolore lancinante mi costringe a mollare la presa su Andrea, ritrovandomi un attimo dopo a terra con il naso sanguinante.
«Non ti intromettere puttana, è una questione tra noi» biascica, fulminandomi con il suo sguardo sadico.

Finalmente Axel si alza e con uno spintone si libera dalla morsa di quel mostro.
Afferra velocemente la mia mano e mi trascina fuori di lì.
Respira affannosamente mentre rafforza sempre di più la presa attorno alla mia mano cominciando a camminare velocemente in direzione della macchina.

Una volta raggiunta l'auto mi prendo qualche istante per osservarlo meglio.
Il suo viso è gonfio e rivoli di sangue fuoriescono dal naso e dalla bocca.
«Stai bene?» riesce a dire, senza curarsi che sia lui quello messo peggio tra i due.
«Si» balbetto, poggiando una mano sul naso dolorante.

Cerco dei fazzoletti nella mia borsa per poi tamponare con delicatezza le sue ferite, piangendo come una bambina indifesa.
Si scosta al mio tocco, regalandomi una fitta di dolore al centro del petto.
«Non toccarmi.
Sto bene»
La sua voce fredda e distaccata mi provoca un brivido nelle viscere più profonde.
«Mi dispiace» sussurro,abbassando lo sguardo.

«Di cosa?
Di cosa ti dispiace?
Non è mica colpa tua se quel figlio di puttana non è ancora sotto terra» digrigna i denti, battendo un sonoro colpo sul volante.
«Voglio andare a casa»
Le lacrime non accennano a fermarsi mentre mi torturo le dita tra loro alla ricerca di una calma che non tornerà molto facilmente.

«D'accordo.
Ti accompagno da tua madre» gira la chiave in senso orario mettendo in moto l'auto, per poi schiacciare il piede sull'acceleratore e partire.
Stringe il volante così forte che potrebbe frantumarsi nelle sue mani da un momento all'altro.
«No, non voglio andare da mia madre.
Voglio venire a casa tua»
«Non credo sia una buona idea» risponde atono, mantenendo lo sguardo fisso sull'asfalto di fronte a sè.

«Axel non farlo.
Non allontanarmi di nuovo» balbetto, cercando di non far tremare le mie corde vocali.
«Non ti sto allontanando.
Posso stare solo per qualche ora?
O devi starmi sempre appiccicata?
Cazzo» sbotta, battendo nuovamente i pugni sul volante.

Ci risiamo, di nuovo prende le distanze da me nel momento in cui ho più bisogno di lui.
Frena bruscamente davanti casa mia facendomi sobbalzare in avanti.
«Ti chiamo io» non mi guarda nemmeno, è come se i suoi occhi fossero incollati sull'asfalto.
Sbatto violentemente la portiera dell'auto e corro in casa, sentendo il rombo del suo motore allontanarsi sempre di più.

Richiudo la porta alle mie spalle, lasciandomi lentamente scivolare a terra in preda a un pianto disperato.
La parole di quel mostro vorticano nella mia mente provocandomi un forte mal di testa.
Nascondo il viso tra le mani e lascio che le emozioni più crude che mi porto dentro fuoriescano insieme alle lacrime.
La nausea prende a cazzotti il mio stomaco, sento il vomito risalire fin sopra la gola.

Mia madre non è in casa fortunatamente, non riuscirei a raccontarle tutto.
Non ora.
Trascino lentamente le mie gambe fino alla camera e mi butto sul letto, stremata da questa orribile situazione.

Pian piano i respiri tornano ad essere regolari e, finalmente, sento le palpebre farsi via via più pesanti.
Ho bisogno di evadere.
Ho bisogno di sognare.

L'inferno in noiWhere stories live. Discover now