Capitolo 46

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"A scuola mi chiesero
cosa volessi diventare
da grande, risposi "felice".
Mi dissero che non avevo
capito l'esercizio
e io dissi loro che non
avevano capito la vita"
JOHN LENNON

Impiego parecchio tempo per tornare a casa e i continui capogiri non mi aiutano nell'impresa.
Percorro ogni singolo vicolo con l'impressione che le case ondeggino, non riesco a smettere di piangere.
Mi sento così stupida, sapevo che era una trappola e per l'ennesima volta ho deciso di caderci.
So di averlo deluso, so di aver commesso la più grande stronzata della mia vita; ma non merito questo.
Lui mi ha ferito tante, troppe volte.
Non può essere lui a giudicarmi, non può proferire parola dal momento che ogni mio sbaglio è dettato dal dolore che lui mi ha causato.
E che, puntualmente, continua a causarmi.
Sappiamo entrambi che tra noi non può funzionare eppure ci troviamo costantemente immersi in questo legame infernale che ci costringe a strapparci l'anima a vicenda.

«Principessa, sei tornata a casa?» il telefono vibra tra le mie mani segnalando l'arrivo di un messaggio da parte di Edoardo.
Non rispondo.
Ho bisogno di capirne di più, devo trovare una spiegazione logica alle parole che Axel ha rovinosamente sputato in faccia a suo fratello.
"Non ti permetterò di rovinare anche lei"
Cosa intendeva dire?
Chi ha portato alla rovina Edoardo?
Credo di essere incappata in un circolo vizioso dal quale non riesco a tirarmi fuori.

Il cervello prende silenziosamente a pugni il mio cuore quando, finalmente, raggiungo la porta di casa.
È quasi l'alba ormai e mia mamma fortunatamente non è in casa e non ci sarà per tutta la settimana.
Corro in camera mia per infilarmi qualcosa di comodo e mi fiondo sul divano, accendendo la televisione.
I suoi occhi erano pieni di rabbia e delusione stasera, era irriconoscibile.
Non avevo mai visto tutto quell'astio bruciare quelle iridi azzurre, ho provato una forte paura nel vedere le sue emozioni incontrollabili fuoriuscire violente trasformandolo in una belva.
Deve esserci qualcosa sotto, qualcosa di cui ancora non so nulla,  qualcosa che lo spinge ad essere così dolce e così scontroso nel giro di pochi istanti.

Due forti colpi alla porta mi fanno sobbalzare, con gli occhi ancora semichiusi afferro il cellulare per controllare l'ora.
Sono solo le sette di mattina, chi diavolo può essere a quest'ora?
Apro, pronta a sbraitare contro chiunque si sia permesso di svegliarmi a quest'ora; ma ciò che trovo davanti ai miei occhi mi lascia alquanto perplessa.
Un enorme mazzo di rose rosse e blu nascondono il viso della persona che le sta sorreggendo.
Quando finalmente si decide ad abbassare il fascio di fiori, rimango senza parole.
«Gian, che ci fai tu qui?» balbetto, sfiorando quei petali colorati.

È bello come al solito, indossa una tuta nera e le solite Globe ai piedi, una canotta bianca con il logo della Supreme copre a malapena le spalle larghe e muscolose.
Deve essersi allenato parecchio ultimamente vista la crescita spropositata dei suoi avambracci.
I capelli sono più lunghi rispetto all'ultima volta che ci siamo visti e qualche ciuffo ricade disordinato sul viso.

«Buon compleanno, Emme.
Scusa il ritardo, sarei dovuto venire ieri ma soltanto stanotte ho trovato il coraggio di farlo.
Scusa per come ho reagito, tu hai il pieno diritto di vivere la tua vita e di essere felice con qualcuno; e, se quel qualcuno non sarò io, me ne farò una ragione» afferma tutto d'un fiato, porgendomi le rose.
Mi scosto di lato per permettergli di entrare in casa.

«Avevi ragione, sai?» balbetto, posando finalmente lo sguardo su di lui.
«Su cosa?» domanda, incastrando i suoi occhi nei miei.
«Avrei dovuto darti retta fin dall'inizio.
Avevi ragione quando dicevi che Axel non avrebbe portato nulla di buono nella mia vita» sussurro mantenendo un tono di voce basso, come se lo stessi confessando più a me stessa che a lui.
«Mi dispiace che non sia andata come desideravi» si avvicina lentamente a me, esitando qualche istante prima di cingermi in vita con le sue braccia tatuate.

Ne ho davvero bisogno.
È sempre stato una delle persone più importanti della mia vita fin da quando sono piccola, e mi è mancato davvero tanto.
«Allora, vuoi raccontarmi cos'è successo?» domanda, sfiorandomi dolcemente la guancia.
«È difficile da spiegare»
Fisso il mio sguardo su un punto indefinito alle sue spalle, prima di prendere coraggio e proseguire.
«Non so cosa ci leghi esattamente, so soltanto che ogni volta che stiamo l'uno accanto all'altro ci facciamo del male, ma quando non siamo vicini ce ne facciamo il doppio»
confesso, avvertendo una dolorosa fitta al petto.

Ometto di raccontargli tutta la storia di Edoardo, sicuramente mi giudicherebbe e non è questo ciò di cui ho bisogno ora.
Gliene parlerò più avanti, forse.
«E cosa hai intenzione di fare ora?» domanda, scrutando attentamente il mio viso.
Sospiro nervosamente, torturando le dita tra loro.
«Non ne ho idea.
Credo che la cosa più giusta da fare sia provare a dimenticarlo e fare in modo che lui faccia lo stesso»
«Sarà difficile, ma siamo troppo diversi per riuscire a costruire qualcosa insieme» continuo, con una consapevolezza che mi straccia il cuore.
«Emme, ce la farai. Non sei sola» sussurra, accennando un timido sorriso.
«Tu hai me»

Ho paura che la sua vicinanza sia dovuta a qualcos'altro, così decido di mettere subito le cose in chiaro.
«Non posso essere altro che un'amica per te, Gian.
Non posso starti accanto come desideri tu» affermo, arrossendo dall'imbarazzo.
«Lo so, l'ho capito.
Solo amici, ok?» alza le mani in segno di resa, strappandomi un sorriso sincero.
«Ok» 

«Tu che mi racconti?
Novità nella grande city?» domando, portando una Philip Morris alle labbra.
«Ho conosciuto una ragazza davvero carina, ma non credo di essere il suo tipo; sinceramente ora come ora voglio stare da solo e godermi la vita da scapolo» afferma, mostrando la lingua.
«Uuuh, e chi sarebbe la fortunata?» chiedo, inarcando un sopracciglio.
«Si chiama Aria, e smettila di guardarmi come una pettegola curiosa» ride, tirandomi un cuscino in faccia.
«Non me ne avresti parlato se non ti piacesse» biascico ironica, lanciandogli a mia volta lo stesso cuscino.
«Te l'ho detto solo perché mi hai chiesto se c'erano novità.
Al massimo le do una botta e via» afferma, facendo spallucce.
«Gian, da quando sei così loquace?» domando, sgranando gli occhi dalla sorpresa.
Scoppiamo in una fragorosa risata quando, ad un certo punto, si blocca.

«Da quando speravo in un qualcosa che purtroppo non accadrà mai» risponde, incastrando i suoi occhi nei miei.

L'inferno in noiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora