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1997

La lezione di storia era finita da qualche minuto, ma ancora mi attardavo, seduta al mio banco, risistemando appunti e libri dentro alla vistosa borsa rossa che avevo tenuto nascosta sotto la sedia. Di norma, in collegio, non venivano ammessi accessori come borse, fasce per i capelli, fermagli colorati, orecchini, trucco o qualsiasi altra cosa che deviasse dalla rigorosa divisa blu che ci veniva fornita in quattro versioni (due estive e due invernali) ad inizio d'anno e che andava curata, tenuta pulita e stirata attraverso i mesi. Quindi, di fatto, quella borsa era una piccola trasgressione e sarebbe stato meglio per la mia reputazione e il mio curriculum non farmi vedere troppo intenta a trastullarmi con qualcosa che non era strettamente necessario e che, in accordo alle rigide regole del collegio, non sarebbe stato tollerato.

Se qualcuno avesse notato la mia borsa, nessuno mi avrebbe risparmiato un richiamo.

E quella borsa non poteva non essere notata.

Di solito non amavo trasgredire a quelle regole, ero una ragazza piuttosto docile, anzi, per me era sempre stato facilissimo adattarmi alla vita di scuola: schemi, routine, tabelle, orari, la campanella che trillava l'inizio e la fine lezioni.

Mi dicevano cosa dovevo fare, mi davano istruzioni e io le eseguivo alla perfezione.
Il metronomo della perfetta secchiona.

E io lo ero, senza neppure vergognarmene: ero una secchiona un po' nerd e sopra le righe, una di quelle che venivano guardate con commiserazione, ma anche ammirazione, perché ero graziosa, avevo grandi occhi blu, un bel faccino, ero seria e di buona famiglia. Ci tenevo, a seguire le regole, ero bravissima ad obbedire e dire di sì: mi piaceva assecondare e compiacere gli altri. Ero sempre stata una secchiona che si atteneva alle regole, orgogliosa di esserlo.

Tuttavia, quel giorno, avevo preso la borsetta senza pensarci, come se qualcuno me l'avesse sussurrato all'orecchio con voce tentatrice ed ammaliante, tipo quella delle sirene dell'Odissea, che attiravano a sé gli uomini per portarli alla rovina.

Certo, nel collegio che frequentavo, non esistevano sirene, semmai molte ragazze come me, studiose, atipiche, a volte talmente perfette e robotiche da risultare quasi delle asociali.
Poi c'erano le cheerleader mancate, quelle che frequentavano un collegio prestigioso solo per trovare un buon partito, ma a cui non interessava nulla dell'educazione. Ragazzine sciocche, vuote, superficiali, che non sapevano mettere in riga due parole di senso compiuto, che fallivano miseramente ad ogni prova, ad ogni esame. E non ci stavano male! Io, quando prendevo un voto al di sotto del buono, mi laceravo le vesti e dovevo sforzarmi per non fare harakiri per il disonore. A loro, semplicemente, non interessava. Flirtavano, ridevano, si passavano bigliettini sciocchi pieni di frasi stupide tratte da canzoni ancora più stupide, saltavano le lezioni per baciare qualche ragazzo brufoloso negli angoli scuri delle aule deserte. Ecco, quelle ragazze non mi piacevano.

Loro mi chiamavano "semprevergine", ma se solo avessero saputo come le chiamavo io nella mia testa, avrebbero riso meno. Sciocche galline. Non ero mai stata una ribelle e non amavo le trasgressioni, non ero una di quelle ragazze spericolate, che deviano dalla norma. A me le regole piacevano, mi piaceva avere istruzioni e seguirle alla lettera, mi piaceva quando mi dicevano che ero brava, diligente, che ero una solida certezza, perché non fallivo, non deludevo mai, perché ero sempre preparata, attendibile, affidabile.

In quasi quattro anni, era la prima volta che facevo qualcosa di così diverso dal solito e, a pensarci bene, era strano. Avrei dovuto capire che c'era qualcosa che non andava anche solo da quel gesto banale.

Erano quattro anni che studiavo in quel collegio situato in riva ad uno dei principali laghi svizzeri, accoccolato tra montagne spesso innevate, rinfrescato da venti del nord, lontano da casa, da quelle che dovevano essere le mie radici, ma che ora mi sembravano solo distanti e poco familiari. Da circa quattro anni, quella era diventata la mia vera vita, la quotidianità con cui avevo a che fare tutti i giorni e, quando si vive così a lungo dentro ad uno schema, le regole, le istruzioni, i dettami sono un appiglio a cui aggrapparsi con tenacia per non impazzire.
Perché le regole andavano bene, mi facevano sentire sicura, protetta, come se potessi fidarmi ancora di qualcosa. I miei genitori mi avevano spedito fin lì per darmi la possibilità di ottenere la migliore educazione in Europa, d'altronde, quel collegio aveva un passato che radicava le proprie origini fin dal secolo precedente, sapevo che la quota d'iscrizione era altissima; frequentavano i miei stessi corsi figli di politici internazionali di primo piano, di attori famosi, magnati della finanza e dell'industria. C'erano le divise e un severo protocollo che andava rispettato, con tanto di coprifuoco e punizioni severissime per gli eventuali trasgressori. C'erano insegnanti dedicati che seguivano classi di soli cinque ragazzi talentuosi, eclettici e superdotati che facevano a gara a chi fosse il più intelligente e, spesso, risultavo essere io, la più brillante, la più poliedrica, quella che spaziava con disinvoltura dalle materie umanistiche a quelle scientifiche.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now