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A quel punto, mi aspettavo un bacio.
Anzi, no, mi aspettavo IL bacio.
Ma, con mio grande disappunto, non mi baciò affatto, il che fu una vera delusione, perché nella mia testa mi ero già immaginato come sarebbe stato.
E non sarebbe andata di certo come con il ragazzo polacco, veloce, pieno di sensi di colpa, confuso, umidiccio e poco confortevole, sarebbe stato meraviglioso, perfetto, unico.
Invece non successe proprio nulla.
Mi riportò all'officina, dove chiamai un taxi per tornare a casa. Aveva insistito per portarmi a casa, ma aveva già perso troppo tempo per quella giornata lavorativa.
Attese pazientemente che arrivasse la macchina, mi fece salire a bordo, aprendomi la portiera.
Mi sedetti e, dopo aver abbassato il vetro del finestrino, mi affacciai, sporgendomi leggermente verso di lui.
Non si mosse, non fece un passo verso di me.
Avrebbe potuto baciarmi lì, ma forse sarebbe stato un po' scomodo, attraverso il finestrino della macchina e io, di certo, avrei sbattuto la testa da qualche parte, conoscendo quanto fossi maldestra.
Ma comunque non lo fece, mi sorrise, diede l'indirizzo al tassista e batté sul tetto della macchina per dargli segno che poteva partire.
E partii, senza riuscire a dirgli nulla, anche se sulla punta della lingua avevo un fiume di parole, mi voltai a guardarlo, mentre diventava sempre più piccolo, fino a scomparire dietro la curva che la macchina aveva appena svoltato. Le braccia conserte, un sorriso storto sulle labbra, una ciocca di capelli sulla fronte, che spostò con un nervoso gesto della mano.
Non dissi nulla, nemmeno una parola.
Avrei voluto salire su un tetto e gridarlo alla luna.
Scriverlo sul profilo frastagliato dell'orizzonte.
Avrei dato tutto ciò che avevo per trovare il coraggio di dirgli che ero pazzamente, follemente, disperatamente innamorata di lui.
La macchina mi portava via, ma il mio cuore restava lì, al suo fianco.
A casa, la vita era terribilmente noiosa, grigia, monotona.
Mi spogliai, annusai i vestiti e sentii il suo profumo ancora addosso, cosa avrei dato per averlo ancora al mio fianco, anche solo per sentire la sua voce...
Mi feci una doccia, cenai con i miei genitori, ascoltando le interminabili, sciocche, vuote lamentele di mia madre, mio padre che l'ascoltava in venerazione parlare di vestiti, di un'amica che stava per divorziare, il cagnetto di una conoscente, col pelo corto, il collare tempestato di brillanti, a proposito di brillanti, di gioielli, anelli, una collana che aveva visto in uno dei costosissimi negozi del centro, forse poteva comprarlo. Papà annuiva, accondiscendente, con un sorriso paralizzato sulle labbra, mentre, nella sua testa, pensava a ciò che avrebbe dovuto fare il giorno successivo al lavoro.
Io morivo di noia.
Giocavo con le posate, col cibo nel piatto, mentre, col pensiero, scappavo di casa, correvo oltre la siepe, andavo da lui. Quattro giorni che lo conoscevo e, in quel brevissimo lasso di tempo, aveva cambiato tutta la mia vita. Mi aveva ridato la speranza, fatta ridere di cuore quando pensavo che non avrei riso mai più, mi aveva fatto vivere emozioni negative e positive fortissime, mi aveva insegnato a lasciarmi andare, a non vivere ancorata a ciò in cui avevo sempre finto di credere. Mi aveva illuminata, in tutti i sensi.
Mi resi conto, all'improvviso, che in sala da pranzo era calato il silenzio e mamma e papà mi stavano fissando alquanto interdetti.
Cosa mi ero persa?
Oddio, di che cosa stavano parlando?
-Scusate, ero sovrappensiero – dissi appoggiando la forchetta.
-Non hai mangiato nulla – mi fece notare papà, un po' preoccupato, un po' dubbioso, un po' diffidente. -Ho mangiato qualcosa oggi, dopo il museo – non sapevo bene dove avessi trovato la prontezza di inventarmi una stupidaggine del genere, in realtà, non avevo fame, non avevo più fame da tempo. Mamma inorridì:
-Non avrai mica mangiato in uno di quegli orribili bar del centro?
-Chi? Cosa? No, certo che no. Ho preso un gelato, così. Ho poco appetito. - parlare come una

lobotomizzata non avrebbe di sicuro placato i miei, li avrebbe solo fatti diventare più curiosi, o, peggio, sospettosi – Mi dovete scusare se non mangio, so bene che non devo giocare con il cibo, ma non preoccupatevi, sono solo un po' stanca. Oggi ho camminato molto: sto cercando di imparare ad orientarmi, conosco poco questa città. Ogni angolo ha una novità. È molto interessante... dal punto di vista storico.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora