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Col passaporto ancora tra i denti, una sacca lurida sulla spalla, una borsa piena fino a scoppiare sull'altra, le mani alle prese con l'ostinato tappo di plastica di una bottiglia d'acqua, un panino dall'aria inquietante e i soldi del resto, uscii dal terminal di Malpensa, alla ricerca della navetta che doveva riportarmi a Milano.

Non ero mai stata a Malpensa: l'ultima volta in cui ero stata a Milano, quell'aeroporto non esisteva nemmeno. Ora, invece, sembrava il centro del mondo.

Sembravo una disadattata, troppo abituata ai grandi spazi, al silenzio, mentre ora rischiavo di essere travolta da un'orda di piccolissimi giapponesi colorati, quasi presa a male parole da un venditore abusivo di accendini (che non si accontentò del fatto che io non fumavo), abbordata da un uomo d'affari  anglofono, attratto, probabilmente dalle anoressiche dall'aria poco pulita.

Individuai, boccheggiando, il piccolo pulmino che recava la scritta giusta e feci qualche passo veloce, in punta di piedi, per avvicinarmi.

Salii a bordo, dando una rapida occhiata ai miei compagni di viaggio: tutti milanesi facoltosi al rientro dalle ferie estive, dopo un agosto di bagordi, ecco che tornava settembre e la depressione del ritorno al lavoro, alla vita di tutti i giorni.

Mi infilai la bottiglietta ancora ghiacciata in tasca, diedi un morso al panino ed il gusto fu talmente appagante, dopo mesi e mesi di riso scondito, che lo divorai nel giro di qualche secondo: non ero mai stata esigente in materia di cucina e cibo in generale, ora, men che meno e anche il sapore di plastica del prosciutto crudo mi sembrò paradisiaco.

Quel panino valeva la pena di un maldipancia.

Il piccolo pullman partì velocemente verso la città e, per qualche secondo, fui sopraffatta dall'idea che stessi davvero per tornare a Milano. Non ero pronta, erano passate poco più di ventuno ore da quando avevo lasciato l'Africa e ora l'Italia mi sembrava come Marte.

Inspirai a fondo, come una specie di disadattata rilasciata da un centro di igiene mentale che, dopo decenni, rivede la luce del sole e respira l'aria fresca, una povera creatura che cerca di rimettersi in pista in un mondo del tutto sconvolto.

Presi il telefono da una delle tante tasche dei miei pantaloni, sfilai la scheda africana ed inserii quella italiana.

Il telefono, non appena acceso, iniziò a trillare messaggi, chiamate perse, e-mail ricevute.

L'unico lusso che mi ero concessa, prima di partire, era stato quello di comprare un telefono di nuova generazione, con tanto di connessione internet, e-mail, applicazioni di cui ancora dovevo scoprire le potenzialità.

Tanto in Darfur non funzionava nulla. Quindi avevo solo sprecato i miei soldi.

Mentre il pulmino continuava il suo viaggio verso la grande città ostile, controllai le e-mail: niente di nuovo, a parte una frase di sostegno da parte di Patrizio, con, in allegato, una bellissima foto del campo, con tutti i bambini che sorridevano verso l'obiettivo.

Poi.

Un messaggio da mia madre: "Ciao bella! Avvisami quando sarai arrivata, potremmo trovarci per un aperitivo".

Sì, non vedevo proprio l'ora.

Mamma e papà si erano lasciati.

Da diversi anni, ormai.

Beh, diverse cose erano successe, dopo la mia drammatica partenza da Milano.

Mamma era rimasta infelice e papà arrabbiato.

Dopo tre anni di alti e bassi si erano lasciati, o meglio, mamma aveva teatralmente sbattuto la porta della villa, uscendo dalla vita dell'uomo che l'aveva amata, confortata, protetta ed idolatrata per ventitré, lunghissimi e complicati, anni.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now