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Lasciare l'Africa non è mai facile. MAI.

Chi è stato in Africa lo sa.

Non è questione di Mal d'Africa.

Il Mal d'Africa è per i pivelli, per quei turisti da gran resort che non entrano mai in contatto con ciò che davvero è l'Africa. Il Mal d'Africa era qualcosa inventato ad hoc dagli operatori turistici per convincere i creduloni a spendere quattromila Euro per una vacanza rinchiusi in un albergo a cinque stelle dove il contatto più vicino con i locali era la mancia che si dava al ragazzo che versava da bere al tavolo, a cena, durante lo spettacolo dell'animazione in cui venivano mimati ad hoc danze tribali e usanze tipiche.

Una foto e via, ecco, per loro, l'Africa era quella.

Per me che avevo imparato a mie spese ad amare davvero l'Africa, per l'Africa ero pronta a morire, pronta a dare tutto, pur di tornarvi.

Per l'Africa ci si contorce all'inferno, perché, da qualunque parte del mondo si poteva provenire, solo in Africa ci si poteva sentire a casa.

L'Africa era il vento che soffiava aria nei miei polmoni, era la luce che dava luce ai miei occhi, era i profumi contrastanti che riempivano le mie narici, era sotto i miei polpastrelli, nel mio cervello, in ogni mio pensiero, dentro al mio cuore.

L'Africa era l'unico posto al mondo in cui avevo trovato un sorriso sincero da parte di un perfetto sconosciuto, senza doppio fine, pronto ad accoglierti, per quanto disperata possa essere la situazione, per quanto dramma, quanta violenza, quanto orrore avessi dovuto affrontare, ero in Africa e mi bastava guardare il cielo per trovare la pace.

Avevo visto cadere l'Africa così tante volte, per ogni volta, mi dicevo che quella sarebbe stata l'ultima, la definitiva, ma, poi, vedevo il coraggio fiero e combattivo negli occhi dell'Africa che si rialzava, piegata, stuprata, violata, ferita, ogni singola volta.

In piedi, pronta ad affrontare un altro giorno, un'altra lotta, un'altra sfida.

In un qualche, bizzarro, modo, sentivo che l'Africa, indomita, infrangibile, sventrata e rotta eppure sempre pronta al combattimento, era la versione geografica di me.

Forse, per questo, dal primo momento in cui avevo messo piede sul continente africano, una vita fa, anche se in termini cronologici non era passato poi così tanto tempo, mi ero sempre sentita accettata, a casa.

Più a casa di quanto fossi mai stata in qualsiasi altra parte del mondo in cui avessi vissuto.

Oh, fu così difficile andarmene, che quasi stento a dirlo.

Afferrai la mia sacca marrone e, da dietro la tenda ancora chiusa, attraverso un piccolo pertugio dal quale filtrava una luce incandescente ed invadente, perlustrai il campo con gli occhi: avevo vissuto lì per un intero anno, era stato il posto che avevo chiamato casa, era la gente che consideravo amica, ne avevo conosciuto i lutti, le miserie, le atrocità, le morti, le piccole gioie che valevano come oro colato. Avevo seppellito bambini in fasce, falciati dalla malnutrizione e dalle epidemie di colera, donne incinte, il ventre gonfio, che avrebbe dovuto portare la vita, immobile, morto anch'esso. Avevo stretto tra le braccia una ragazza che aveva la mia stessa età e, impotente, l'avevo guardata morire tra tra dolori indicibili, con ferite nell'animo e nel corpo che non ero mai più riuscita a raccontare a nessuno. Aveva pianto, disperata, ripetendo, nel suo dialetto melodioso e speziato, che non voleva morire. Dio solo sa quanto avrei voluto salvarla e quanto mi fossi sentita inutile, nel vederla, esanime, tra le mie braccia impotenti.

Avevo pensato di non farcela.

Di non riuscire a reggere tutto quell'orrore.

Avevo pensato che quella era l'apocalisse, che il mondo non potesse superare ciò che avevo visto.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉKde žijí příběhy. Začni objevovat