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Entrai furtiva in casa, nella speranza di passare inosservata tra marmi, specchi e quadri ad olio, la vera passione di mio padre, e raggiungere lo scalone centrale che portava al piano superiore. Chiusi il portone alle mie spalle, appoggiandomici contro per qualche secondo, premetti le mani sul legno pregiato ed inspirai a fondo, giusto il tempo di calmare il battito del mio cuore, assumere un atteggiamento innocente e tentare di farla franca.

-Chloé! - esclamò una voce alla mia sinistra, voltai di scatto lo sguardo e vidi mio padre, braccia conserte e la sua tipica espressione da "non dovevi farmi questo" stampata sul viso, la stessa espressione che avevo visto sfoderargli mille volte, in presenza di Claudio.
-Scusa – dissi subito, ammettendo le mie colpe.

-Sono le otto, te ne rendi conto?

-Scusa, papà - ripetei quasi balbettando – mi è scappata l'ora, non capisco come possa essermi distratta per così tanto tempo. Appena me ne sono resa conto, sono...
-Ma cosa sei stata a fare in giro fino a quest'ora? Ti ho salutata che non erano neppure le quattro e ora è sera! - si avvicinò a grandi passi e mi accucciai contro il portone. Non avevo paura che mi picchiasse, mio padre non aveva mai alzato un dito nei miei confronti, ma sapevo che era parecchio stressato, sapevo di avere torto, sapevo di averla fatta grossa.
E sapevo di non avere una scusa sufficientemente plausibile per giustificare il buco nero che mi aveva inghiottita per quattro ore.
-Scusa – feci per la terza volta, aggrappandomi alla maniglia – non so... non.. mi dispiace. Il tempo è passato e quando è stato buio era già troppo tardi. Ho perso la cognizione del tempo, quando me ne sono accorta, ho cercato di correre a casa. Ma so che è tardi.
Papà inspirò a fondo, per calmarsi, per capire quello che gli stavo dicendo, per evitare di pigliarmi a calci:
-So che hai bisogno di tempo per te, che vuoi stare da sola e alla tua età hai bisogno di spazio, ma tu sai quello che stiamo passando, quindi sarebbe carino da parte tua non aggiungere tensione e preoccupazioni a quelle che abbiamo già.
-Lo so. Hai ragione e mi dispiace.
-Questo l'ho capito, non è necessario che tu ripeta le cose dieci volte – disse duramente, poi abbassò la voce di un tono e allungò una mano verso i miei capelli, li accarezzò come se fossero fatti di zucchero filato, di sogni, di tutto ciò che poteva essere intoccabile e prezioso – ma... Chloé, cerca di capire anche noi. Cerca di capire me. Ho perso tuo fratello da poco, ancora cerco di rendermene conto, ci sto ancora facendo i conti, non credo che riuscirò mai a superare questo lutto. Ho paura di perdere anche te.
-Non mi perderai mai, papà – risposi chiudendo gli occhi, lasciando che la sua mano blandisse le sue paure, lasciando che si sfogasse, che prendesse le misure della realtà: ero lì, ero tra le sue mani, ero ancora la sua bambina, non era successo nulla di irreparabile.
Non ero Claudio: ero ancora viva, ero ancora sua.
Per certi versi, lo sarei sempre stata.
-Non farlo mai più, se vuoi stare fuori non c'è nessun problema, ma basta che avvisi, voglio sapere dove sei, non mi lasciare ancora così: sei la cosa più importante che ho, non posso permettere che accada ancora - ogni sillaba scandita lentamente, per farmi capire il concetto.
-Non accadrà di nuovo. Ho lasciato che i pensieri mi distraessero – e visto che quel pensiero si chiamava Gabriel non era neppure una vera bugia.
-Va bene – mi lasciò un lieve bacio tra i capelli, proprio dove si era appena appoggiato la sua mano – tua madre non sa nulla: sta riposando.
Che, nel nostro linguaggio segreto, equivaleva a dire che era ubriaca, o fatta, o entrambe le cose e non si era accorta della mia assenza.
Annuii guardandolo dritto negli occhi, cercando mio padre, la persona che credevo di conoscere e che, nelle ultime ore, vacillava come un oggetto sospeso nel vuoto. Da bambina, lo avevo sempre visto come un eroe senza macchia e senza paura: alto, forte, bellissimo, affascinante, un uomo di successo che non doveva dare spiegazioni o chiedere perché. L'uomo che, indaffarato, sistemava i problemi con un colpo di telefono, che dava ordini perentori ai quali tutti obbedivano, l'unico al mondo che potesse dominare le follie di mamma, che riusciva a farmi sentire la mia famiglia ancora mia.
Tuttavia, con il passare degli anni e, specialmente, nell'ultimo periodo, la sua immagine si era offuscata ed appannata, diventando, via via, un oggetto misterioso, un po' spaventoso, un uomo che usava il proprio potere per intimidire, per guadagnare ancora, per zittire chi lo circondava, comprava mia madre coi soldi, mio fratello con la paura e me, blandendomi di complimenti, come si danno zuccherini ad un animale ammaestrato.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now