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Visto che avevo ancora poca dimestichezza con la tecnologia, presi appunti su un foglietto di carta dove, tecnicamente, avrei dovuto esprimere il mio parere sulla mia sistemazione in quell'hotel scelto a caso. Se mi fosse piaciuta la camera.
Il servizio.

La posizione dell'hotel rispetto al centro.
Sì, ok, magari, la prossima volta.
Dal brevissimo articoletto, che risultava essere la versione digitale di un articolo di giornale risalente al 1997, primi giorni di settembre, appresi che un'officina era andata a fuoco.
Il cuore mancò un battito, il mondo intero si fermava.
L'incendio era stato doloso.
Nessun ferito, ma l'attività era andata completamente in fiamme.
Era l'officina dello zio di Gabriel, quella dove avrebbe dovuto lavorare anche Claudio.
Come era potuto succedere?
Tutto distrutto, la loro attività, il loro mondo... andato.
Fumo, cenere, macerie.
Polvere, come la polvere aveva ricoperto ogni cosa che ci riguardasse.
Adesso capivo perché nessuno rispondesse più al telefono.
Con ogni probabilità, dopo quel disastro, Gabriel aveva dovuto modificare molto la sua vita e, forse, anche cambiare casa.
Ed ecco perché non abitava più all'indirizzo che conoscevo.
Comunque, la cosa più importante era che non c'erano stati feriti.
Quindi, malgrado l'incendio e il disastro, lui stava bene.
Tutto questo, fino al settembre 1997.
Certo, nel frattempo, erano passati undici anni e, in quegli undici anni, tutto poteva essere successo. Annotai le date, i luoghi, il nome dell'officina.
Presi due vitamine che mi aveva prescritto Patrizio, roba blanda che avevo potuto reperire alla prima farmacia in cui mi ero imbattuta dopo il mio arrivo in Italia. Osservai le pillole, mentre svitavo il tappo della bottiglietta d'acqua, pensando che, con vitamine del genere, in Africa avrei potuto salvare una vita. Con quel preziosissimo pezzo di carta infilato in tasca, mi avviai verso il luogo che mamma aveva deciso per il nostro appuntamento.
Una sala da tè un po' anacronistica e fuori dal tempo, a pochissimi passi dal Duomo.
Ero in anticipo.
Anzi, no, controllai l'orologio.
Ero in orario, ma ero arrivata per prima.
-Desidera ordinare? - mi chiese gentilmente un cameriere.
-No, sto aspettando una persona – risposi con un sorriso.
Giochicchiai con il menù, scelsi mentalmente la mia ordinazione, tutto mi faceva gola, ma il mio stomaco era ancora molto fragile, quindi dovetti optare per una torta al limone e un te verde, controllai l'ora due volte, ammirai l'arredamento del locale, mi sentii stupida, rilessi mille volte il mio piccolo tesoro di carta, con i nomi che potevano cambiare la mia vita, controllai l'ora, di nuovo.
Attesi pazientemente dieci minuti, poi quindici, poi venti.
Poi mezz'ora.
Ok, altri dieci minuti e me ne sarei andata.
Nel frattempo, il mio cuore mi implorava di dargli tregua, di essere clemente, di abbassare la guardia, di smettere di pensare male, un ritardo non era niente, non era proprio niente.
Io ero molto più forte di un ritardo.
Mi passai una mano tra i capelli e giochicchiai di nuovo con il menu, scuotendo la testa, sentendo l'aria che mancava ai polmoni.
Non avrei passato un altro secondo in attesa.
Dopo quaranta minuti, una chiassosa nuvola al profumo di bourbon fece il proprio trionfale ingresso nel locale.
-Chloé! - gridò la donna che, tecnicamente, era mia madre.
Solo che non lo era più.
I danni della chirurgia plastica, riflettei fra me e me: mamma aveva un naso alla francese la cui punta era talmente aguzza che vi si sarebbe potuto bucare un pallone da calcio, labbra così gonfie che pareva l'avessero presa a pugni, zigomi alti, altissimi. Occhi strizzati al punto che sembravano a mandorla. Collo a pezzi, quasi sul punto di crollare. Fisico perfetto. Tacchi altissimi. Capelli biondissimi. Uno stupido mini-cane infilato dentro ad una borsetta griffata.

Appoggiò il cane e la borsa sulla sedia alla mia sinistra e la bestiola mi ringhiò, tanto per far capire chi comandasse.

-Ciao. Mamma – alzai un sopracciglio, in attesa di sentire in quale elaborato e sadico modo avrebbe giudicato il mio aspetto fisico. Non ero truccata. In realtà, proprio non possedevo più trucchi. Semplicemente, me ne ero liberata poco prima di partire per l'Africa e, beh, insomma, là, non erano proprio necessari. Non ero vestita alla moda. Non avevo più alcun vestito elegante. Certi orpelli non mi servivano più da tempo. Non avevo un taglio di capelli decente: l'ultima volta che mi ero tagliata i capelli, avevo fatto tutto nel giro di tre minuti, con un paio di forbici, davanti ad uno specchio.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now