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Lasciai il polveroso albergo con le mattonelle verde vomito e, riempito il mio zaino con le pochissime cose che possedevo, mi trasferii da Gabriel quello stesso giorno.

Poteva sembrare una mossa azzardata.

Era, in effetti, una mossa azzardata.

Anzi, più che azzardata, sarebbe stato meglio definirla da pazzi.

Dopotutto, quello che noi pensavamo essere amore, poteva essere solo lo choc di ritrovarsi di nuovo insieme dopo tanti anni, poteva essere il desiderio di voler rivivere qualcosa di meraviglioso che si era vissuto da ragazzi, poteva essere perfino l'ostinata voglia di dover provare a noi stessi che avevamo creduto in qualcosa di concreto.

L'entusiasmo poteva scemare.

Poteva diventare un vero incubo.

Potevamo addirittura arrivare ad odiarci.

Potevo ritrovarmi, una mattina, a svegliarmi nel letto di uno sconosciuto, di qualcuno che mi ero illusa di conoscere, ma che, in realtà, non conoscevo affatto.

Poteva capitare la stessa cosa a lui.

In realtà, potevo risultare ai suoi occhi una vera, tremenda, orribile delusione.

Potevamo avere amato i rispettivi noi stessi da adolescenti, ma nessuno sapeva ciò che eravamo  diventati, da adulti.

Potevo essere una psicopatica.

Poteva essere violento.

Potevo avere mille turbe mentali irrisolte.

Poteva aver ereditato i geni del padre.

Potevo aver ereditato i geni del mio.

Potevamo, semplicemente, essere incompatibili.

Potevamo, con quella scelta avventata, rovinare la più bella storia d'amore delle nostre vite, rendendola un incubo.

Potevamo non aver nulla da dirci, ma trovarci bene solo sotto alle lenzuola.

E.

Invece.

Pensa un po'.

Strano.

Molto, molto strano.

Ma, forse, no.

Per quanto fosse una decisione da matti, essere innamorati implicava essere anche un po' folli e noi lo eravamo, lo eravamo moltissimo. In quella stessa follia c'era tutta la voglia di far funzionare le cose, di far sì, che, una volta tanto, potessimo avere anche noi un angolo di paradiso.

Gabriel era tutto ciò che volessi.

In apparenza, anche io non gli dispiacevo.

La nostra convivenza iniziata come un sogno ad occhi aperti, procedette ancora meglio con il passare dei giorni: il mondo era nostro e ci stavamo lentamente, passo dopo passo, riprendendo tutto ciò che avevamo perduto nel corso degli anni precedenti.

E la cosa più bella era che non era un sogno, ma una realtà che potevo toccare ogni volta mi andasse, una realtà che vedevo ogni volta che aprivo gli occhi, che trovavo stesa al mio fianco ogni singola mattina, addormentato, arruffato, un braccio steso sul mio stomaco, il viso coperto dai ricci, gli occhi dalle lunghe ciglia scure chiusi in un sonno sereno.

Era la realtà, una realtà che io stessa avevo sognato per anni e che ora era così concreta che a volte ne ero quasi destabilizzata, perché tutta quella felicità era ultraterrena, dopo anni di miseria, sogni infranti, tristezza, solitudine: ero così stanca di stare da sola, di sentirmi sola, unico essere umano ancora vivo al mondo. Stare con lui alla luce del sole era, per me, qualcosa ancora di impensabile, a volte mi sembrava strano passeggiare per strada tenendogli la mano, andare a cena fuori ad orari normali, essere presentata ad amici e conoscenti come la sua ragazza, rientrare in casa dalla porta principale, senza doversi  nascondersi da sguardi malevoli.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉOnde histórias criam vida. Descubra agora