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Nei giorni successivi, passai ogni minuto libero con lui.
Invece di andare a lezione di portoghese, scappavamo di nascosto tenendoci per mano e ci nascondevamo da qualche parte a baciarci.
La notte, ogni singola notte, veniva da me, come una specie di Romeo post-moderno, le Superga ai piedi e i jeans rovinati.
Mi insegnò che l'intimità e il contatto fisico non erano cose mostruose da estorcere con la forza: con lui, bastava sfiorarsi con la punta delle dita per sciogliermi come ghiaccio al sole, perché le ginocchia mi tremassero, perché mancasse un battito al regolare pulsare del mio cuore. Nessuno al mondo poteva farmi sentire come mi faceva sentire lui, non c'era nessuno al quale mi potessi sentire vicina come a Gabriel: ero sua, gli appartenevo non solo in quanto fidanzata, ma anche, e soprattutto, come anima gemella.
Non mi faceva mai sentire messa in disparte, mai di troppo, mai non all'altezza.
Mi insegnò il sesso a piccoli passi, prendendo le misure del mio corpo, imparai a prendere confidenza con il suo, per quanto, ogni volta, ogni scoperta, mi facessero sentire inadeguata, impacciata, con ancora troppe cose da scoprire. Ogni giorno era nuovo, ogni giorno pensavo che ormai mancava solo l'atto estremo, invece, c'era sempre qualcosa di diverso che scoprivo.
L' "atto estremo" non era ancora accaduto.
Definirlo in quel modo mi faceva pensare che, dopo averlo fatto, sarei morta.
Probabilmente, sarebbe andata proprio così, anche solo per l'ansia che provavo ogni volta in cui ci pensavo.
Non facevo altro che pensare a lui, al suo sorriso, al suo modo insistente e protettivo di prendersi cura di me, a quanto, ai miei occhi, fosse del tutto privo di difetti, al suo profumo, al modo che aveva di sbattere le ciglia, quando non riusciva a trovare le parole adatte, alla sua risata incontrollabile, esilarante, mentre batteva le mani come una foca, allo sguardo venerante quando mi vedeva arrivare, come se ogni volta mi vedesse per la prima volta, alla curva delle sue labbra carnose quando sorrideva o quando si mordeva un labbro.
E ogni suo sorriso, ne strappava uno a me.
Il suo modo lento di parlare.
Quando si mordeva un labbro, mentre mi faceva i raggi x da capo a piedi.
La sua camminata oziosa, con le mani in tasca e le lunghe gambe che sembravano non finire mai.
Gli appartenevo come non ero mai stata di nessuno, aveva una parte di me, qualcosa che nessuno avrebbe mai più avuto, perché con lui ogni giorno imparavo qualcosa di nuovo, perdevo maschere e difese, diventando una persona diversa, più forte, più sveglia, più autonoma.
Gli appartenevo come donna, come fidanzata, come amica.
Gli appartenevo non come una possessione, ma perché volevo essere sua, lo volevo con tutto il mio cuore.
Gli appartenevo come si può appartenere al primo amore, all'amore di una vita intera, perché ogni giorno rendeva la mia esistenza piatta e scontata una favola.
Gli appartenevo non perché fossi una principessa, ma perché mi faceva sentire tale.
Mi insegnò a guidare e come si cambia una ruota ad una macchina.
Mi fece sentire la sua musica preferita, aveva gusti completamente diversi dai miei, ma non disprezzabili, anche se, in fatto di musica, ero molto esigente.
Parlammo di film, scoprendo di avere in comune la passione per alcuni, insospettabili, attori. Probabilmente, quei giorni furono i più felici della mia vita da adolescente.
Una sera, guardando le stelle, sdraiati sul tetto del suo palazzo, dove erano ancora stese montagne di lenzuola bianche che ondeggiavano pigramente alla brezza leggera di metà agosto, con una penna gli disegnai sull'avambraccio le mie iniziali.
Lui rimase intento a guardarmi, osservando in silenzio la mia opera, poi sorrise e disse:
-Dovrei farne un tatuaggio.
-Dovresti.
-Lo farò. - alzai un sopracciglio, incredula – Ho un amico che fa i tatuaggi, tutti questi me li ha fatti lui – mi spiegò alzandosi la maglietta e mostrandomi i disegni che portava sul corpo, li sfiorai con la punta delle dita, incuriosita.
Solo qualche settimana prima, non mi sarei mai sognata di compiere un gesto simile: sfiorare il petto di un uomo!

Cavolo, Chloé era cresciuta!
Non arrossiva quasi più.
Beh.
Quasi.
Alzai lo sguardo verso di lui e dissi:
-Anche io voglio fare un tatuaggio.
-Sei minorenne, non puoi, penso proprio che sia necessaria l'autorizzazione di uno dei tuoi. Se vuoi mi informo, ma non credo che siano favorevoli all'idea.
-Visto che è un tuo amico, chiuderà un occhio anche senza autorizzazione. So che riuscirai a convincerlo, so che potresti convincere chiunque. - aggiunsi alzando un sopracciglio.
-Vedrò quello che posso fare, se è quello che vuoi.
-Dovrò farmelo in un posto che i miei non vedranno mai. Tipo il sedere.
Gabriel storse la bocca, poco entusiasta alla mia idea:
-Non credo proprio che lascerò che il mio amico veda il tuo sedere, quindi pensa ad un altro posto.
-Ci penserò meglio. - convenni, pensando che aveva ragione, poi aggiunsi: - Il seno? - mi lanciò uno sguardo di rimprovero e gli feci una linguaccia.
-E cosa ti farai tatuare?
-Il tuo nome, ovviamente.
-Non sono sicuro che tu voglia davvero tatuarti il mio nome. Un tatuaggio è per sempre, dovresti fare qualcosa di importante.
-Tu sei importante – dissi alzando le spalle.
-Ti ringrazio, - mi sorrise dolcemente - ma vorrei ci pensassi bene. Forse vuoi tatuarti il nome di tuo fratello, piuttosto.
-Sei tu che l'hai riportato da me: prima di conoscerti, ero convinta di averlo perso per sempre e non perché era morto, ma perché ci eravamo allontanati e pensavo non mi volesse più bene come prima. Mi hai fatto capire che mi sbagliavo, da quando sei entrato nella mia vita, mi sono successe un sacco di cose belle...
-Sì, ti hanno quasi stuprata, per due volte – sottolineò corrugando la fronte.
-Esagerato. Non credo che a quel tipo venisse duro – sgranai gli occhi, sorpresa dalla mia stessa frase. - Ops. Dimentica quello che ho detto.
Gabriel scoppiò a ridere di cuore, fossette agli angoli della bocca, il capo reclinato all'indietro, gli occhi socchiusi: se ero una principessa, allora lui era il mio principe.
-Sei tremenda.
-Non so come mi sia uscita! - borbottai, scuotendo la testa - Io non parlo così. Hai una pessima influenza su di me.
-Sarebbe colpa mia? - fece scandalizzato.
-È colpa tua se sono ossessionata dal sesso. Non faccio altro che pensarci. E, prima di conoscerti, giocavo ancora con le bambole.
-Ma piantala! - mi diede una leggera spintarella.
-Sì, sì. È tutta colpa tua – lo picchiettai sul petto – e, comunque, ormai ho deciso: prima o poi mi farò un tatuaggio col tuo nome, ancora non so quando o dove, ma è una promessa.
-Non è necessario che ti faccia un tatuaggio – mi prese in giro – so già che sei pazzamente innamorata di me.
Arrossii di colpo, pensando che, sotto a tutte quelle stelle, il rumore della città lontano, solo in sottofondo come un mantra positivo, ad anni luce dai nostri problemi, era il momento giusto.
-Beh. Dato che siamo in argomento... quello che ti ho detto qualche giorno fa è vero. Lo confermo, lo ribadisco.
-Cosa è vero? - chiese con un mezzo sorriso.
-Non è che abbia molta esperienza in materia. - distolsi lo sguardo, fissandolo verso il tetto di stelle che ci sormontava, indifferente - So di essere imbranata e che, forse, sembro una ragazzina. In realtà, sono una ragazzina. Imbranata. Ma ora sono sicura di amarti. Ci conosciamo da poco, ma in questo poco tempo hai cambiato tutta la mia vita. Ed è vero che l'hai cambiata in meglio: con te ho aperto gli occhi. Sei una persona speciale e sono sicura che farai grandi cose. E, quindi, credo di amarti. Cioè, ne sono certa.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉKde žijí příběhy. Začni objevovat