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-Che cosa? - chiesi trasecolando, come se mi avesse dato uno schiaffo. Nel luglio 1998 ero in collegio, a preparare gli ultimi esami prima del diploma, ricordavo la presenza ossessiva della mia tutrice, che frugava tra le mie cose alla ricerca di messaggi privati, bigliettini, qualsiasi cosa che potesse denunciare a mio padre. Ricordai di aver guardato la finale dei mondiali di calcio con lei che ronzava per la mia stanza come una mosca fastidiosa. Ricordai di aver dato gli esami finali e di averli superati brillantemente, morta dentro, senza nessuna voglia di festeggiare.

Tanto non avevo il permesso di frequentare nessuno.

Niente più amici, niente più vita sociale.

Solo quella stupida, orrenda, disgustosa donna che mi pedinava come una stalker.

La odiavo.

Mi nauseava.

Era la persona più meschina, noiosa, petulante, priva di qualsiasi senso dell'umorismo, la più abietta, quella che rovistava nella mia vita in cerca di, come lo definiva, "tracce del mio amorazzo estivo". 

Se solo avesse saputo.

Se solo avesse immaginato.

Le cose terribili che le avevo augurato.

Detestavo i peli neri che le spuntavano come funghi sulla faccia, il suo essere trasandata, le gonne lunghe fino alla caviglia, le ciabatte sformate e quei piedi tremendi, con l'alluce valgo, le unghie gialle, i capelli costantemente in disordine, sporchi, pieni di forfora, l'odore terribile che emanava, qualcosa di un misto tra sudore, canfora e tessuti sintetici, la sua voce gracchiante, fastidiosa, che sapeva solo impartire ordini e dirmi di no.

Mi seguiva in biblioteca.

Mi seguiva in sala pranzo.

Mi seguiva mentre cercavo nell'armadio i vestiti da mettermi addosso.

Mentre studiavo, mi spiava al di sopra della mia spalla, casomai nascondessi qualche segreto tra i libri di letteratura.

Pretendeva di controllarmi, prima di entrare in bagno, qualora nascondessi microspie o videoregistratori nel reggiseno.

Era una presenza costante alle mie spalle, ne sentivo il respiro pesante, sentivo il suo sguardo sempre addosso, ogni minuto, secondo della mia vita.

Maledetta stronza.

Quando mi riuscii a liberare di lei, perché ormai ero maggiorenne e, legalmente, non avevo più bisogno di alcun tutore, mi sbronzai come una disperata, da sola, in un bar di pessimo livello, finendo a vomitare l'anima per strada.

Oh, certo, perché ero innegabilmente sempre un'affascinante principessa.

Ma, ormai, non c'era più nessuno a controllarmi.

Ora ero una donna libera.

-Sì, con Alex. - continuò Gabriel, alzando le spalle - Abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Lugano, Berna, poi Ginevra, poi abbiamo finito i soldi e abbiamo fatto l'autostop fino a Zurigo. Solo che non sapevo dove studiavi. Avevamo cercato le principali scuole private, collegi e roba del genere, ma nessuno ci dava informazioni, non eravamo autorizzati a ricevere alcuna indiscrezione su chi frequentava. Sembrava di vagare nel buio, bendati. Nessuno ci dava risposte, nessuno sapeva niente, sembrava non esistessi più, svanita nel nulla. Eppure sapevo che, da qualche parte, eri lì e, forse, mi stavi aspettando, forse... forse aspettavi il mio arrivo. O forse no, all'epoca non lo sapevo. Ma sapevo che ti rivolevo, ad ogni costo e non importava se avessimo toccato il fondo. Non importava quanto dovessimo viaggiare. Non importava niente. Importavi solo tu. Abbiamo vagato come barboni per giorni e giorni, abbiamo dormito per strada, abbiamo mangiato panini e bevuto alle fontane pubbliche. Abbiamo camminato come disperati, senza meta, aggrappandoci ad ogni minimo barlume di speranza. Abbiamo finito subito i soldi perché non so quante volte mi sono ubriacato dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto. La Svizzera è costosa, roba da ricchi, anche una birra costava una fortuna – commentò scuotendo la testa.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉМесто, где живут истории. Откройте их для себя