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Un frenetico, isterico, inopportuno bussare alla porta della mia camera da letto mi distrasse dai miei pensieri, che spaziavano dal mio bellissimo fratello morto fino al ragazzo che era entrato di soppiatto nella mia vita, rivoluzionandola.
Dopo il mio viaggio nella musica, durante il quale ero stata sola con me stessa, con la presenza, in lontananza, di Claudio, mi ero rintanata in camera, sfuggendo al mondo reale, quello in cui ero stata trascinata: un mondo dove ero sola, senza l'appoggio di nessuno, nemmeno quello dei miei genitori, che pure doveva essere scontato.

La mia età dell'innocenza stava volgendo al termine: ora non credevo più alle favole.
-Avanti – risposi, senza avere altra scelta. Mi sollevai a sedere sul letto, appoggiandomi pigramente sui gomiti.
Mamma fece capolino sulla soglia, mi lanciò uno sguardo di commiserazione, ritenendomi inaccettabile sia per abbigliamento che aspetto fisico.
Alzai un sopracciglio, in attesa di una sua parola.
Rimanemmo qualche secondo a prenderci le misure a vicenda: io, la figlia imperfetta che non rispondeva alle sue ambizioni senza limiti né freni, lei, la donna di ghiaccio, incapace di qualsiasi sentimento, reazione o emozione umana: la donna che aveva reso la vita in quella casa insostenibile per me, papà e Claudio.
Era uno scontro di sguardi, tra titani, tra amazzoni che non avrebbero piegato la testa.
-Vestiti. Truccati. Tra mezz'ora le mie amiche sono qui per un tè, vedi di farti trovare presentabile.
Entrò in camera con il passo di un militare e spalancò l'armadio, dando una critica occhiata ai miei vestiti (che, per la cronaca, aveva comprato lei).
Sbuffò, scuotendo la testa, come se persino quello che aveva deciso per me non fosse abbastanza o non la soddisfacesse.
Scorse tra tinte e fantasie, fino a trovarne uno che le piacesse, un abito da cocktail a pois, con la gonna poco sopra al ginocchio. Abbinò un paio di scarpe con la zeppa in tinta e un fiocco per i capelli che non avrei messo nemmeno se fosse stato il mio ultimo giorno di vita.
Rimasi immobile sul letto, guardandola come si guarda una pazza, un clown fuori di testa, mentre, in un fruscio di tulle e sbattere tempestoso di tacchi, si affannava per trovare qualcosa che mi facesse apparire come la figlia ideale.
Senza degnarmi di un'ulteriore occhiata, parola o attenzione, chiuse la porta alle proprie spalle.
Nella sua testa, non meritavo altre spiegazioni.
Ero il trofeo da esibire.
La bambolina da mettere su uno scaffale.
Ero lo sciocco e vacuo fantoccio di cui, nei giorni buoni, ci si poteva vantare.
O quella da accusare, nei giorni no.
Scesi da letto, appoggiando prima un piede e poi l'altro.
Trattenni tra le mani il vestito, dando un'occhiata all'insieme di capi di abbigliamento che mamma aveva scelto per me: un abito elegante le scarpe con il tacco, il fiocchetto nero da applicare ai capelli. Il trucco doveva essere sobrio, ma doveva esserci, per far capire alle amiche di mamma che mi ero preparata all'evento.
Non era la prima volta che succedeva, non era la prima volta che mamma mi vestiva come una bambola o come una bimba di cinque anni, solo per mostrarmi alle sue amiche, solo per far loro invidia.
Perché ero tutto ciò che loro non avrebbero mai avuto.
Perché rispondevo a tutti i requisiti che loro stesse ricercavano nei figli, che non erano mai all'altezza, che potevano mettercela tutta, ma non sarebbero mai stati in grado di soddisfare le loro aspettative.
Io ero bella.
Ero magra.
Ero intelligente.
Brillante.
Ero obbediente e disciplinata.
Ero tutto ciò che si aspettavano che fossi.
Guardai con disprezzo i vestiti che mi aveva preparato, li spostai con una manata, facendoli cadere a terra.
Dalla Svizzera avevo portato qualcosa che avevo comprato con i soldi che papà mandava ciclicamente a fine mese, una specie di paghetta di cui non godevo, visto che avevo zero vita sociale, visto che non avevo tempo per shopping o altro, solo concentrata sullo studio. Eppure, un pomeriggio, dopo un voto particolarmente lusinghiero, mi ero concessa un pomeriggio di compere sfrenate: vestiti che mia madre non avrebbe approvato, trucchi eccessivi, perfino una extension violetta, da applicare ai capelli. Non avevo mai indossato nulla di tutto ciò che avevo comprato, ovviamente, ma me l'ero portata a casa. Forse, nella paura inconscia che qualcuno, al collegio, sbirciasse nel mio armadio e si accorgesse di una maglietta dei Nirvana, dei jeans bucati, le scarpe da ginnastica viola e la ciocca finta di capelli in tinta. Indossai l'outfit alternativo a quello proposto da mia madre e, con una punta di sgomento mista ad orgoglio, fissai la mia immagine riflessa allo specchio.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now