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Non ebbi il tempo di pensarci, realizzare o riflettere, non mi resi nemmeno conto di ritrovarmi subito dopo seduta sulla sua macchina, un vecchio maggiolino rosso, che mi portava via da casa.

Gabriel aveva una guida scattante, amava correre e premere sull'acceleratore, così il mondo, fuori, scorreva veloce dal finestrino.

-Posso chiederti dove stiamo andando? - chiesi leggermente preoccupata, tenendomi stretta alla maniglia della portiera, mentre svoltavamo troppo in fretta ad una curva.

-Ieri non è stata una gran giornata per tutti e due, vorrei che oggi fosse almeno un po' meglio – rispose tutto concentrato sulla guida.

-Qualsiasi cosa è meglio di ieri, stessimo anche in macchina per sei ore – commentai a mezza voce. Decisi comunque di accontentarmi di quella vaga risposta, abbassai il vetro del finestrino e mi godetti l'aria tiepida del pomeriggio, il vento che mi scompigliava i capelli, il sorriso appena accennato che mi incurvava le labbra, senza fare altre domande: per la prima volta, dopo tantissimo tempo, non avevo voglia di fare programmi o sapere tutto ciò che mi aspettava. Mi andava bene stare lì, accanto a lui, sentire la primavera alle porte, la musica disimpegnata in sottofondo all'autoradio, i miei diciassette anni vissuti non come un peso, ma con una leggerezza che sentivo per la prima volta, come se non fosse successo mai niente di brutto, come se non avessi, prima o poi, dovuto tornare alla realtà.

Mi bastava essere senza troppi pensieri per il tempo, poco o molto che fosse, che potevo trascorrere al suo fianco. Magari mi stavo mettendo nei guai, sicuramente mi stavo distraendo e sbagliando e ne avrei pagato le conseguenze, ma per il momento andava bene così: avevo pensato troppo, razionalizzato troppo, avevo schematizzato ogni cosa, avevo vissuto la mia vita a scomparti stagni, in piccoli quadratini che avevo sistemato in ordine come un mosaico, salvo poi trovarmi con pezzi mancanti che facevano sì che, del mosaico, non si capisse proprio più nulla: ora volevo vivere i miei diciassette anni con un filo di spensieratezza in più, volevo lasciarmi morte, solitudine e lacrime alle spalle per qualche ora, poi sarei tornata nel buio, ma non ora, non adesso, non con lui.

Mi accoccolai contro il finestrino e lasciai che il vento mi accarezzasse il viso e mi scompigliasse i capelli, mentre lui guidava con lo sguardo fisso sulla strada davanti. Gli lanciai qualche furtiva occhiata di sottecchi, giusto per assicurarmi che fosse vero davvero, che fosse lì e non me lo stessi sognando: studiai il suo profilo delicato, che lasciava intravvedere l'uomo che sarebbe diventato, ma che ancora parlava di un ragazzino al tramonto dell'adolescenza. Un piccolo brufolo all'angolo del mento, un filo impercettibile di barba, pelle bianca in netto contrasto con i suoi riccioli castani scompigliati sulla fronte, sopracciglia scure che mettevano in risalto occhi verdi, di un verde intenso, quasi innaturale, la bocca carnosa, rosa come un fiore appena sbocciato, la figura magra ed atletica, scattante, nervosa. Gabriel era il tipo di ragazzo che sapeva di piacere e che inevitabilmente piaceva a tutte, perché aveva un'aria al tempo stesso maledetta e da bravo ragazzo, qualcuno che ti avrebbe fatta innamorare perdutamente, ma che poi ti avrebbe spezzato il cuore, lasciandoti solo ricordi infranti sui quali sognare per il resto delle notti che dovevano completare il lungo e controverso cammino dell'adolescenza. In lui, tutto diceva pericolo e fascino, io stessa ero attirata come una calamita, forse per il suo carisma, per il suo essere trascuratamente ruvido e dolce, innocente, infantile e dannato, per bene e peccaminoso al tempo stesso, bravo ragazzo e mascalzone, perché mi aveva quasi rapito da casa per portarmi via con sé e quella non era una cosa che capitava tutti i giorni.

Almeno, a me non era mai successo.

Ma forse ero io ad avere avuto una vita estremamente noiosa e prevedibile, fino a quel momento.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now