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Avevo prenotato una stanza in un piccolo hotel a buon mercato in centro.

Per quanto avessi avuto un fondo fiduciario che i miei genitori avevano aperto per me alla mia nascita e di cui ero entrata in possesso al compimento della maggiore età, non ero una da grandi lussi: non avevo bisogno di vestiti eleganti, borse, o scarpe, non volevo perdere tempo con shopping o sciocchezze simili, ora più che mai, dopo la mia esperienza africana.

In realtà, non sapevo quanti soldi avessi in banca.

Né mi importava.

Non sarei tornata a casa.

Non c'era più una casa.

Dopo aver svuotato la sacca di tela verde, messo sommariamente a bagno nel lavandino la roba sporca, fatto una bella doccia corroborante e mandato un e-mail a Patrizio e all'associazione per confermare il mio arrivo, mi sdraiai a letto, con il telefono in mano, indecisa se premere o meno il tastino verde di chiamata.

Lo premetti.

Poi premetti il tastino rosso.

Poi di nuovo il verde.

Poi il rosso.

Poi il verde e, questa volta, lasciai squillare:

-Chloé – mi rispose una voce entusiasta dall'altro capo.

Chiusi gli occhi, nel risentire, dopo due anni e mezzo, quella voce, così giuliva, senza pensieri, come mi avesse sentito il giorno prima.

Come se, nulla fosse mai successo tra di noi.

-Mamma – risposi, sempre con gli occhi sempre chiusi, chiedendomi in quale diavolo di incubo mi fossi infilata, perché mai avessi dovuto chiamarla e in quale mondo parallelo potevo sperare di avere ancora un rapporto con la donna che, anni indietro, mi aveva guardato freddamente, senza alcuna emozione, mentre, stesa sul pavimento della mia camera da letto, invocavo pietà.

-Sei in Italia?

-Sono a Milano.

-Ci dobbiamo vedere! - squittì entusiasta, anche se non riuscivo a capire la ragione di quell'entusiasmo senza freni.

-Credo... sì. Credo di sì.

-Riesci ad essere pronta in due ore? - ero già pronta.

Almeno pronta fisicamente, pensai, perché la mia mente non sarebbe mai stata pronta a quell'incontro, avrei sempre sentito il fiato corto, il cuore in gola, la rabbia montarmi dalle viscere fino alla gola. 

-Beh, è ovvio – evitai di precisare che, in due ore, avrei potuto salvare una vita, o assistere al decesso di una creatura umana.

Mamma rise, divertita, mi lasciò l'indirizzo a cui mi sarei dovuta recare e aggiunse:

-Vorrei tanto che conoscessi Alberto.

L'idea di conoscere il vecchio che aveva accalappiato mamma mi attirava quanto quella di mangiare pasticcio di fango, muffa e topi.

-Ci vediamo dopo. - dissi senza entrare nei dettagli.

Forse poteva pensare che, passati tanti anni, fosse passato anche il rancore: non sapeva che, con il passare degli anni, la rabbia era cresciuta, come il rimpianto, come tutto ciò che avevano rovinato.

Chiusi la comunicazione prima che potesse aggiungere qualche altra stupidaggine senza cuore.

Non aveva menzionato papà.

Neanche una parola, come non fosse mai esistito, mai l'avesse amato, mai ci avesse fatto due figli, mai fosse morto.

Mi voltai prona sul letto ed iniziai a cercare su Google il nome di Gabriel in tutte le salse e versioni: nome cognome, cognome nome, nome soprannome, soprannome, nome cognome data di nascita, viceversa.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉOnde histórias criam vida. Descubra agora