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Neanche il tempo di rispondere, di un ultimo bacio o di una sola parola, che era già scappato via, uscito dalla mia finestra e dalla mia vita, lasciandomi addosso il suo profumo, il batticuore, il senso di smarrimento e di perdizione, insieme a quella strana sensazione di essere diventata più grande di qualche anno nel breve momento che avevamo trascorso insieme.

Mi affacciai alla finestra in tempo per vederlo sgusciare furtivo attraverso il giardino illuminato dalla piena luce del sole: non si girò a guardarmi, ma sgattaiolò via veloce e agile come un gatto, come se avesse fatto quel percorso almeno mille volte e, forse, era proprio così.
Mi dissi che avrebbe dovuto voltarsi, avrebbe dovuto controllare, anche solo fugacemente, se lo stessi osservando o meno, avevo la sciocca, infantile, certezza che se si fosse voltato mi avrebbe confermato che ci teneva, che voleva vedermi l'ultima volta e fissare la mia immagine negli occhi e nella mente, prima di ripiombare nella mia vita di tutti i giorni.

O a fare chissà cosa.
Nel giardino silenzioso e deserto, guardai la sua figura correre veloce, per poi fermarsi di colpo, quasi un pensiero improvviso lo avesse trafitto. Si girò di scatto e alzò lo sguardo verso la mia finestra: un sorriso infantile e trionfale mi scoppiò sul viso.
Allora ci teneva!
Intimamente battei un cinque alla fragile-me, dicendomi che ero una grande.
Esternamente, mi limitai ad alzare una mano in segno di saluto, lui si portò due dita alla tempia, allontanandole poi di scatto, in una specie di saluto militare poco serio.
Trattenni una risata, soffocandola con una mano sulla bocca, proprio sulle labbra che lui aveva appena baciato.
Baciato?
Baciato!
Mi passai una mano sulle labbra, sentendole ancora gonfie, beh, quello era stato davvero il bacio di una vita, il primo bacio per cui valeva la pena aspettare, lottare ed avere il cuore in gola. Scuotendo la testa, ancora incredula, mi ritirai, feci una piroetta, chiusi la finestra e mi preparai per affrontare la giornata. La persona che aveva bussato circa tre minuti e quaranta secondi prima, si rivelò essere una delle cameriere che mi chiedeva cosa desiderassi per colazione. Cosa strana, visto che, di norma, nessuno mi aveva mai chiesto se avessi preferenze particolari.
Evidentemente, gli dei dell'amore ci erano ostili.
Chiesi un tè, un caffè e una brioche al cioccolato.
La ragazza, poco oltre i venti anni, annotò la mia lista dei desideri su un taccuino, quasi fossimo in un albergo e poi uscì, elegante, dalla porta, senza aggiungere altro.
Controllai allo specchio se sul mio viso si notasse qualcosa di ciò che era appena successo: apparentemente, tutto era come sempre.
Mi buttai sul letto, sospirai, ben sapendo che, prima o poi, sarei dovuta uscire da quella stanza, per affrontare razionalmente la realtà.
Come potevo, se il suo profumo mi riempiva ancora le narici?
Come, quando le mie labbra ancora sentivano premere le sue?
Ancora bruciavano del suo sapore, come diavolo potevo?
Come, se tutto il mio corpo era indolenzito dal desiderio?
Come, se la sua voce roca e sussurrata ancora echeggiava tra quelle quattro mura?
Come, se avevo ancora il cuore in gola e l'adrenalina in circolo?
Se fossi stata intelligente, mi sarei data una martellata in testa, giusto per tramortirmi e godermi un po' di riposo recuperare le ore di sonno perdute tra un bacio e l'altro.
Oppure avrei dovuto ricorrere ai sonniferi di mia madre, quella sarebbe stata una decisione quantomeno pericolosa, ma efficace.
Scherzo. Scherzetto.
Ok, non era divertente.
Più passava il tempo e più mi rendevo conto di avere un senso dell'umorismo che io stessa stentavo a capire, ormai era evidente, non mi sarei mai fidata a prendere i sonniferi da cavallo di mia madre: quindi rimasi ferma immobile a letto, rivivendo come in un film tutto quello che era successo: da quando ero uscita dal bagno fino a quando si era voltato a salutarmi prima di scomparire dentro al buco nella siepe. Gabriel, in pochi giorni, aveva cambiato la mia vita da cima a fondo.

Prima di conoscerlo, credevo di essere felice, mi bastava ciò che avevo e tutte le cose che avevano fatto parte della mia vita erano sufficienti, andavano bene. Erano ok.
I miei risultati scolastici, la carriera, i successi, una condotta consona, essere elogiata, sentirmi dire che ero un orgoglio per i miei genitori, sapere che potevo essere fiera di me stessa, perché ero esattamente ciò che tutti si aspettavano che fossi.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now