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Mi prese per mano, conducendomi attraverso la strada buia come una guida sexy e seducente.
Seguii i suoi passi senza fare una sola domanda, senza chiedere perché, come o dove, perché era vero che ero una ragazza programmatica, ma, in quel momento, scoprii che essere sorpresa non era così male. E mi fidavo di lui, mi fidavo ciecamente.
L'ingresso del locale era un anonimo portone, in una via qualsiasi, in un palazzo come tutti gli altri. Mi ritrovai a scendere le scale, quasi scendessi all'inferno, un gradino dopo l'altro, mentre l'aria diventava sempre più fredda e umida e mi pareva di raggiungere il centro stesso del mondo.
Forse ero davvero al centro del mondo, considerato che ero con lui.
Ancora un gradino.
E poi un altro.
E un altro ancora.
Eravamo ormai diversi metri sotto terra, quando raggiungemmo quella che, in apparenza, sembrava la segreta di un castello in uno di quei film dagli effetti speciali patetici e scadenti degli anni settanta. Invece era una cantina, i muri grondanti umidità, parecchie bottiglie di vino accatastate in cestelli, cassette, in fila, impilate una sull'altra, vari tavoli vuoti, con le sedie rovesciate sopra, il pavimento ricoperto di mattonelle sconnesse, il soffitto a botte, che rendeva l'acustica perfetta, quasi un sussurro, poi candele, candele ovunque. Non c'era luce artificiale se non quella emanata proprio dalle centinaia di piccole candele accese e sparse dappertutto. Musica in sottofondo, jazz: non esattamente il mio genere preferito, io ero più una ragazza pop, ma ero aperta ad ampliare le mie conoscenze. Un tavolino apparecchiato per noi con una tovaglia rossa, stuzzichini deliziosi e dall'aria invitante, un bicchiere di vino rosso, uno pieno di coca cola, con accanto una rosa rossa.
Aggrottai la fronte e dissi:
-Questo sarebbe il locale del tuo amico?
-Già, è un jazz club. Anzi, per la cronaca, uno dei più famosi jazz club della città.
-E dove sono tutti gli altri?
-Per stasera il locale è prenotato.
-Da chi? - chiesi stupidamente.
-Da me, ovvio.
-Siamo solo noi? - sgranai gli occhi, sorpresa.
-Sì. Solo io e te. E un cameriere, che poi è il mio amico, si è offerto gentilmente di prepararci qualcosa da sgranocchiare e di lasciarci il suo spazio. Se hai voglia di mangiare qualcosa di particolare, basta che lo chieda e te lo porta. Da un barolo del '64 fino ad una quaglia alle prugne. Decidi tu.
-Penso che pop corn e patatine vadano più che bene – risposi scoppiando a ridere.
-In quel collegio nobile che frequenti ti insegneranno anche a far di conto – disse con sussiego – ma non capisci niente di cibo. O di vini.
-Io sono astemia – alzai le spalle, sorseggiando la mia coca cola.
-E non sai mangiare – aggiunse ridendo, puntando verso di me il suo calice di vino.
-Insegnami.
-Che?
-Insegnami come si fanno le cose. Insegnami a bere, a mangiare, a divertirmi, a far sentire la mia voce. Insegnami ad essere popolare, ribelle e trasgressiva. Sono un'ottima allieva e sono bravissima e veloce ad imparare. Insegnami ad essere felice.
-Non sarai felice, essendo ciò che non sei. - obiettò, corrugando la fronte - Non hai bisogno di mascherarti con atteggiamenti non tuoi. - rispose di getto, abbassando il bicchiere e lo sguardo.
-Dentro di me c'è un leone che ruggisce, - dissi mordendomi un labbro, perché quell'idea mi era cresciuta dentro nei pochi giorni successivi al mio ritorno a casa, ma ora, più che un'idea, era una certezza, una sicurezza, una convinzione che mi faceva pensare di aver vissuto solo in parte, fino a quel momento. Ero viva, cosa che, dopo la morte di Claudio, non davo più per scontato: volevo lasciare il mio segno, volevo che tutti sapessero chi ero e volevo saperlo anche io. Volevo essere più della figlia carina ed intelligente da sfoderare come un oggetto nelle occasioni ufficiali, più della moglie perfetta, della donna, in futuro, da sposare: non volevo diventare una minaccia per la mia intelligenza, ma usarla per fare qualcosa di concreto, di grande, qualcosa che restasse come segno del mio passaggio su questa terra: - so di essere molto di più, so di volere di più. So di non essere il fiume tranquillo che scorre e non lascia il segno. Voglio fare qualcosa che conti, qualcosa di importante, qualcosa da ricordare, così nessuno potrà dimenticarsi di me. Voglio fare la differenza, voglio lasciare un'impronta che non si cancelli con un'onda del mare o col vento. Pensavo di essere niente, ma non è così: sono una valanga, sono... sono un terremoto. Solo che mi hanno sempre detto di stare buona, di obbedire, di assecondare gli altri, me l'hanno ripetuto fin dalla nascita ed ogni giorno della mia vita, così tanto che adesso non so più come essere me stessa.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now