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Avrei voluto rispondergli e farlo entrare nel mio mondo.
Gli avrei spiegato che, anche se molti sostenevano il contrario guardando la mia vita perfetta, non era facile avere i miei diciassette anni e, in maniera ossessiva e pedissequa, dover sempre dimostrare qualcosa a qualcuno, non sentirsi sempre all'altezza, anzi, ritrovarsi ad avere la sensazione di vivere sempre in bilico su di un precipizio, sospesa su un leggero filo di nylon, senza rete di sicurezza, senza protezione, senza fiato, paralizzata dalla paura di sbagliare, eppure camminare, un passo dopo l'altro, lentissima, centimetro dopo centimetro, per raggiungere una meta che non mi era ancora chiara.
Gli avrei anche detto che crescere in una famiglia in cui ogni atteggiamento, ogni idea, ogni progetto, ogni modo di fare e dire, ogni gesto veniva analizzato e processato non mi aveva aiutato ad essere fiduciosa delle mie possibilità: ero cresciuta col terrore di non piacere, di sbagliare, di deludere, così avevo imparato a dare il meglio di me in qualsiasi cosa facessi, anche se, spesso, questo non era abbastanza.
Per non essere rifiutata ed allontanata, avevo imparato a dire sì, ad accontentare tutti, a non imporre le mie scelte e a mettere i miei desideri in secondo piano e ora non sapevo più chi fossi davvero: dentro di me soffiava il vento gelido che aveva sferzato la vita di mio fratello e l'aveva inconsapevolmente reso la pecora nera di casa, oppure ero davvero la scimmietta ubbidiente che non sapeva dire di no, perché non voleva farlo?
Avrei voluto dirgli che perdere Claudio era stato per me molto peggio che perdere un fratello: in un colpo solo avevo perso anche il mio migliore amico, il mio confidente, la persona che aveva maggiormente influenzato la mia vita fino a quel momento. Niente avrebbe mai potuto sostituirlo o rimpiazzarlo, non c'era nessuno come lui e non ci sarebbe mai stato più nessuno come noi, insieme. Ora ero una come tante, mentre prima c'era lui e dove prima c'era, ora c'era solo vuoto.
Avrei voluto anche spiegargli come le sue parole, fossero anche state dettate dalla convenienza, mi avevano fatto più piacere di quanto potesse immaginare. Mi aveva fatta sentire bella davvero, come non mi ero mai sentita prima e gliene ero grata.
Ma lui non lo avrebbe mai saputo, perché non sarei mai riuscita a dirgli tutto quello che pensavo, tutto quello che provavo, tutto ciò che era stata la mia vita fino a quel pomeriggio, mi ci sarebbero volute due esistenze intere anche solo per trovare il coraggio.
Nella mia vita ideale, gli avrei detto tutte quelle cose, gli avrei spiegato le pieghe del mio cuore, gli avrei raccontato quanto fosse difficile e complicata la mia vita in apparenza perfetta, gli avrei confidato che, ogni volta che lo guardavo, mi piaceva un po' di più e già ora mi piaceva moltissimo.
Ma, nella realtà, non seppi che altro aggiungere, quindi sperai che il mio sguardo grato gli dicesse tutto quello che mi passava per la testa e che non avevo il coraggio di dirgli.
Rimanemmo l'uno di fronte all'altra, un po' impacciati, occhi negli occhi, lui con un ampio sorriso rassicurante, io con i capelli scarmigliati e le guance in fiamme. Tutto intorno, la vita continuava a scorrere, rumori, risa, colori, gente che correva, camminava, discorsi che si accavallavano come onde del mare, come se niente fosse, come se quel momento non fosse importante, anzi, no, essenziale.
In quel preciso momento, mentre lo guardavo senza sapere che dire, con la testa tra le nuvole, il cuore in gola, gli occhi fissi su di lui, che mi sembrava così bello da accecare il sole, da far scendere il buio, mi resi conto con sgomento,come una folgorazione, come uno schiaffo in piena faccia, che Gabriel mi piaceva, mi piaceva moltissimo e per lui avevo qualcosa di molto simile ad una cotta, qualsiasi cosa questa parola volesse dire. In realtà, non sapevo bene come definire il concetto di "cotta", dato che non mi era mai successo di averne una per qualcuno: sapevo che mi piaceva, che volevo passare il mio tempo con lui, che non importava cosa facessimo o dove fossimo, fino a che stavamo insieme. Sapevo che non mi importava del giudizio della gente, di ciò che avrebbero pensato gli altri o perfino i miei genitori, perché mi fidavo unicamente della felicità, del disorientamento, dell'adrenalina che sentivo al suo fianco. Sapevo che era giusto così, perché non sapevo spiegare quelle sensazioni in nessun altro modo, non sapevo trovare altra definizione.
Poteva bastare quel sorriso dannato a farmi arrossire?
Potevo essere così ingenua e mutevole e in preda alle emozioni?
Bastava guardarlo in quel modo, per perdere completamente il senso della realtà, dello scorrere del tempo, del passare delle ore?
Potevo essere così sciocca, così ingenua, così svenevole?
Forse era tutta colpa dell'estate alle porte, di quei maledetti diciassette anni, del non aver mai vissuto una vera vita, fatta di esperienze normali, comuni: alla prima emozione ero già con la testa fra le nuvole. Ma, in fondo, lui mi aveva fatta salire in cielo, quindi era anche un po' colpa sua.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now