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Quello era un appuntamento?

Se sì, come diavolo ci si vestiva ad un appuntamento?

Mi ritrovai con un'espressione perplessa davanti allo specchio dell'armadio in camera, dopo aver provato qualcosa come dieci diverse combinazioni di abiti: gonna corta, maglietta a maniche lunghe, camicetta e bermuda, pantaloni eleganti, t-shirt spiritosa, vestitino pseudo-sexy, salopette di jeans, scarpe con la zeppa, scarpe comode, mocassini, tacco alto, ballerina, borsetta, cerchietto, capelli sciolti, trucco, non trucco.

Ogni volta che mi guardavo allo specchio, c'era sempre qualcosa che mi sembrava fuori posto.
Mi sentivo stupida e ridicola.

Inadatta.

Non sapevo che fare.

Avevo indossato uno degli abitini sexy che mi regalava costantemente mia madre, con l'unico risultato di sembrare una prostituta bambina, roba da Taxi Driver.

La cosa più buffa di tutte era che io continuavo a definirlo un appuntamento, ma non ero mica sicura che Gabriel mi avesse voluta rivedere con... un secondo fine romantico?

Non sapevo neanche come definirlo, piccola infantile patetica perdente.

Se quello non fosse stato un appuntamento, sarei tornata a casa e avrei preso a testate il muro, perché voleva dire che avevo passato ore davanti allo specchio, provandomi decine di vestite, di scarpe, combinando e abbinando, ma in realtà facendomi problemi per niente.

E, poi, volevo davvero fosse un appuntamento?

Lo volevo davvero davvero, croce sul cuore che potessi morire? Ok, in casa avevamo già avuto lutti a sufficienza, ma era solo per dare l'idea.

E, poi, io amavo essere drammatica, fatemi causa.

In genere ci si dava un appuntamento se ci si piaceva e Gabriel non mi aveva dato quell'impressione.

A onor del vero, aveva detto che ero carina, mi ricordò tempestivamente un angolo del mio cervello, di sicuro quello più romantico e senza speranza.

Ma poteva anche non significare nulla.

Ovviamente non significava nulla.

Magari l'aveva detto tanto per dire, per essere gentile, perché mi aveva visto un po' sconvolta.
Oppure gli facevo pena e mi aveva dato un contentino.

Oddio, quello era decisamente il pensiero peggiore: non volevo muoverlo a compassione, non volevo avesse pena per me o la mia situazione familiare.

Oddio. No.

Ma, dovendo guardare in faccia la realtà, senza tanti giri di parole, non sembrava proprio il tipo di ragazzo a cui potevo piacere, anche se non sapevo a quale tipo di ragazzo potessi piacere.

Sicuramente, a lui piacevano le super-maggiorate, bionde, con la bocca a canotto e tutte le curve al proprio posto, tipo Pamela Anderson. O Carmen Electra. Insomma, qualcuno appena uscito da Baywatch. Possibilmente con un costumino rosso aderente e sgambatissimo. Non esattamente una che potesse passare come mia controfigura.

Io che tenevo raccolti i capelli con una matita mordicchiata.

Ero minuta e senza curve, avevo un musetto grazioso, un po' da ragazzina, bocca carnosa, occhi chiari, capelli neri lisci, frangetta infantile che mi toglieva almeno due anni.

Tutto qui.

Non ero brutta, ma non ero certo la maggiorata super-sexy che poteva piacere ad un ragazzo come Gabriel.

Sbuffai, facendo volare la frangia.

Al diavolo!

Dovevo essere davvero stressata ed insicura come il classico cliché della femmina media, mi stavo facendo problemi assurdi: non era un appuntamento e io ero solo una ridicola ragazzina in balia degli ormoni. Il che, oltre ad essere patetico, era anche un po' triste, perché non avrei dovuto pensare a Gabriel in quel senso, non almeno, così a ridosso del funerale di mio fratello.
Era moralmente accettabile trovarlo così carino?

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now