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Una figura emerse dall'ascensore aperto.
Alta.
Snella.
Atletica, ma non muscolosa: la figura di qualcuno che non aveva l'ossessione del fitness, ma, comunque, casualmente andava in palestra, pur non avendone il minimo bisogno.

Qualcuno che era stato benedetto da un corpo geneticamente tonico, forte, asciutto.
Jeans attillati su gambe perfette.
Una semplice maglietta nera addosso, che disegnava il contorno perfetto di un torace allenato.
Braccia lunghe, tatuate che terminavano in mani grandi, su cui spiccavano due anelli d'argento. Carnagione leggermente abbronzata.
Labbra rosa, polpose come un frutto maturo.
Naso dritto.
Occhi verdissimi.
Una massa di ricci color castagno, leggermente pettinati all'indietro.
Mi mancò il cuore, le gambe, la testa.
Persi i sensi, mi sentii svenire.
Sotto il dannato effetto, di un dannato incantesimo non seppi più come muovermi: che diavolo facevo lì? Mio padre era morto, mamma aveva il cancro, la mia famiglia era a pezzi, ed io, davanti ad un fantasma, perdevo la ragione?
Mi venne da vomitare, mi girò la testa e dimenticai tutto.
Era lui ed era esattamente come me lo ricordavo.
Più grande, certo, più maturo.
Ma era il mio Gabriel.
Un po' più vecchio, un po' più serio, ma sempre lui.
Potevano essere passati undici anni, ma lo sfarfallio che sentii nel cuore era lo stesso che avevo provato l'ultima volta in cui lo avevo visto.
Certe cose non cambiavano mai: i servizi del telegiornale sul caldo d'estate e sul freddo d'inverno, i saldi al cambio di stagione, l'instabilità del governo, l'inaffidabilità di Trenitalia, il mio inarrestabile umore, la corsa ai regali di Natale...
Come il mio amore per lui e l'assenza di aria ogni volta che posavo i miei occhi su di lui, lui bellissimo come era sempre stato bello ed affascinante ai miei occhi.
Si poteva vivere senza aria?
Quanto ancora avrei potuto trattenere il respiro?
Quanto ancora, prima di impazzire? Svenire? Scoppiare a piangere?
Poi.
Dall'ascensore sbucò un bambino.
Sei, sette anni.
Capelli neri, ricci, un sorriso birichino stampato sulle labbra.
Gli saltò in spalla e rise come solo un bambino di sei, sette anni poteva ridere: tutto denti perfetti, bianchissimi, tutto fossette.
Dannate fossette.
Forse, morire era così.
Si fermava il cuore, tutto nero e adieu vita.
Gabriel aveva avuto un bambino.
Con qualcosa, cioè, con qualcuno.
Abbassai lo sguardo, cercai di deglutire il rospo che avevo in gola, un passo indietro, poi un altro ancora, cercando di evitare di finire in mezzo alla strada e venire investita da una macchina, un tram, l'ira di Dio.
Bene, come nei migliori spettacoli di magia, ora dovevo sparire.
E in fretta.
Gabriel si era leggermente piegato per raccogliere sulla schiena il bambino, aveva abbassato lo sguardo, poi lo aveva alzato e puntato direttamente di fronte a sé.
Di fronte a lui, lontana un vetro antiproiettile, tre passi indietro, un marciapiede, c'ero io.
Mi vide.

I suoi occhi, di nuovo, su di me.

Per qualche secondo i nostri guardi si allacciarono, come si erano incrociati e mischiati al funerale di Claudio, una vita fa. Solo che, questa volta, ero io a nascondermi e a tentare di mimetizzarmi con il paesaggio: non c'erano nemici a dividerci, ma un periodo di tempo che aveva cambiato davvero troppe cose.

Per qualche secondo, non erano passati undici anni mio padre, Claudio, la sua vita, la mia, il suo  passato, la mia famiglia, il primo bacio, la prima volta, le carezze, i silenzi, i lunghi discorsi, i litigi, le risate, i vari salvataggi, la mia cacciata dal Paradiso a fine agosto, non erano passati i sassolini contro al vetro della finestra della mia camera da letto, il mio scivolare, attento e goffo, nel cuore della notte solo per stare con lui, poi le grida, le imposizioni, una valigia fatta in fretta e in furia, la Svizzera, l'Università, Parigi, gli amori sbagliati, l'Africa, la guerra civile, le morti orrende, la violenza e le armi puntate alla tempia, la morte di mio padre, un volo, di notte, in un paese dilaniato verso il mio dilaniato cuore.

Per qualche secondo ero di nuovo con lui sulle nuvole, lontano da tutto.

Era quasi irreale.

Era magia.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉWhere stories live. Discover now