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Rientrata in albergo, mi cambiai in fretta, infilai un paio di pantaloncini, una t-shirt sformata, le scarpe da ginnastica, presi una bottiglietta d'acqua e fui di nuovo pronta ad uscire.

Negli anni, avevo scoperto che non c'era metodo migliore per schiarirsi le idee più di una bella corsa.

Intorno al mio albergo non c'erano grandi parchi, conoscevo pochissimo quella zona, quindi, appena fui in strada, con la musica suonata a palla dentro alle mie orecchie, grazie al mio Ipod, mi misi a correre a caso, senza direzione.

Passai davanti a vetrine colorate.

Barboni accasciati a terra, agli angoli delle strade, semi-ubriachi.

Coppiette che si tenevano per mano.

Alberi che ondeggiavano al leggerissimo vento di settembre.

Serrande abbassate.

Insegne al neon.

Passanti che non si accorsero della mia presenza.

Sentivo il cuore che batteva sempre più forte, che pulsava quasi più assordante della musica che passava nei miei auricolari.

Il rumore dei miei passi sull'asfalto teneva il ritmo della musica.

Accanto a me scorrevano macchie di colore, viali e panchine.

Chiese, chiuse.

Ristoranti, in attesa dell'ora di apertura.

Milano, alla fine, non era molto cambiata da quando me n'ero andata: certo, più trafficata, più caotica, più colorata, più inquinata, ma la sensazione di essere in un posto ostile che non mi aveva mai accolto davvero non era diversa.

Se mi fossi sdraiata per terra, accanto ad uno dei tanti barboni che schivavo saltellando sul marciapiede, nessuno si sarebbe preso cura di me, nessuno mi avrebbe notata, anzi, avrebbero scavalcato il mio corpo ossuto pensando che fossi una tossica.

Continuai a correre, ancora, spingendo il mio fisico al limite.

Non avevo una meta, né un percorso o un obiettivo, ma continuavo a correre, sperando che quella corsa portasse consiglio. Un po' come nella mia vita di adesso: senza direzione, senza un progetto preciso, mi facevo trascinare dalla corrente.

Avevo chiamato la compagna di papà, dalla voce me l'ero immaginata come una donna minuta e ancora parecchio scossa dalla morte che aveva da poco bussato alla sua porta.

Avevo fissato con lei un appuntamento per il giorno successivo.

Ero tornata da Milano da un solo giorno, eppure i drammi continuavano ad inseguirmi, imperterriti: non importava quanto forte corressi, perché riuscivano sempre a raggiungermi. Avrei voluto vivere quei giorni in totale isolamento, fuori dal mondo, fuori dalla realtà che mi ero lasciata alle spalle undici anni prima, ma, adesso quella realtà, tornava prepotentemente alla ribalta, con spettri e fantasmi che richiedevano la mia attenzione.

Avrei voluto dimenticare tutto.

Anche me stessa.

Avrei voluto starmene chiusa nella mia stantia camera d'albergo a rimuginare sul passato, a cercare indizi su Gabriel, a mangiare schifezze e bere vino di second'ordine.

Avrei voluto restare a letto per giorni interi, dormire, senza avere incubi.

E, invece...

Mi ritrovavo con mamma mostruosamente cambiata, un fantoccio di silicone in parrucca, pronta a morire, avendo rimesso i propri peccati di fronte a me.

Un gioco da ragazzi - PRIMO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉKde žijí příběhy. Začni objevovat