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Passai il primo giorno fantasticando su quello che, il giorno successivo, ci attendeva: senza nemmeno farlo apposta, avremmo trascorso contemporaneamente qualche giorno insieme ai nostri genitori.

E, così, avrei passato tempo con i miei: probabilmente era qualcosa che non succedeva dai giorni della mia adolescenza; da una parte ero un po' preoccupata, perché non sapevo che cosa mi avrebbe aspettato, ma dall'altra avevo davvero voglia di iniziare a cambiare la mia vita.

E i cambiamenti arrivavano anche da quello: cercare con tutte le forze di riunirmi alla mia famiglia, alle mie radici, cercare di far pace col mio passato, con tutti gli anni turbolenti che avevano segnato il mio modo di essere, che facevano soffiare un forte vento dentro al cuore, che ancora pesavano come macigni sulla coscienza.

Dovevo superare quei dubbi e quelle paure che avevano flagellato il mio animo e ogni mio ricordo, come una tempesta tremenda che aveva per anni sferzato ogni sentimento.

Dovevo imparare a crescere, perché il passato doveva diventare un insegnamento, non qualcosa che da dimenticare, tenere nascosto in un cassetto profondo dell'anima, come se fosse uno scheletro, di cui vergognarsi.

Forse avevo dato davvero troppa importanza a Francesco, forse non era colpa sua, se avevo fatto tanta fatica nel lasciarmi andare accanto a qualcuno: forse, il difficile rapporto con i miei genitori era la causa principale di tutti i miei bruschi rapporti con l'altro sesso. Forse, più semplicemente, non avendo serenità, non potevo trovarla da nessun'altra parte, con nessun'altra persona, dovevo trovarle in me, dovevo rendermi conto che potevo aver pace, che quella inondazione nel cuore sarebbe terminata e passata, che sarebbe cresciuta ancora vita dietro di me. Potevo farcela, ma solo se l'avessi capito da sola, con le mie forze, sbagliando, inciampando, prendendo botte e convivendo coi lividi.

Verso le otto, sotto il caldo tramonto romano tutto rosso e tremolante di mille emozioni, mi affacciai al balcone, scrutando la strada semi-deserta, come quando attendevo l'arrivo di Leo, dopo uno dei viaggi che lo tenevano lontano da me.

Osservai il panorama disteso davanti ai miei occhi: bellissimo, emozionante, vibrante come un'emozione che percorreva tutta la vista, come una ola, come qualcosa che non aveva né inizio né fine, con la sciocca speranza che, all'improvviso, arrivasse lui, di cui sentivo la mancanza e a cui mancavo.

Il numero delle nostre telefonate, durante il corso della giornata, non era certo diminuito, solo che ora lo cercavo tanto quanto cercava me.

A volte rispondeva, altre volte no e, quando succedeva, mi richiamava non appena poteva.
Era una delle cose che mi aveva sempre rimproverato, quella di non chiamarlo quasi mai: in realtà, il mio comportamento era dettato soprattutto dal timore di disturbarlo al momento sbagliato, ma ora sapevo che voleva certezze da me ed essere sicuro che gli stessi pensando.

E quindi lo chiamavo non appena avevo voglia di sentire la sua voce e quando non rispondeva, gli lasciavo messaggi buffi e strampalati sulla segreteria telefonica del cellulare.

Dopo mi richiamava ridendo, dicendo che dovevo fare la cabarettista, non l'avvocato.

Di fronte a quel tramonto dorato, sorrisi anche io al pensiero e, proprio in quel momento, un taxi parcheggiò sotto casa, e ne uscirono i miei: il Capitano e Crudelia de Mon.

No.

Mia madre e mio padre.

D'istinto, mia madre alzò il viso e i nostri sguardi si incrociarono.

Alzai la mano in un saluto semplice e sorrise, senza fare altro.

-Ciao – dissi abbracciandola non appena fu uscita dall'ascensore.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now