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Rimasi per qualche minuto ad ascoltare l'incessante tu tu del telefono, incredula, stordita, incapace di articolare un pensiero, una parola, incapace perfino di muovermi.

Passai le mani lungo l'asse del water, per toccare qualcosa che fosse ancora reale, tangibile, mentre tutto quello che mi circondava sembrava ovattato, come se stessi osservando quella scena dal di fuori: una bambola di pezza con le gambe e le braccia rotte, i capelli scarmigliati e il trucco disfatto, una bambola inerte, priva di vita, che non serviva più a nulla, che non aveva più un cuore, o lacrime da piangere. Avevo distrutto tutto, avevo bruciato l'unica cosa che davvero fosse importante nella mia vita e non potevo dare la colpa a nessuno, se non a me stessa.

Non esistevano seconde opportunità, non si tornava indietro, Leonardo era stato chiarissimo e sapevo che non sarebbe tornato.

Dire mi dispiace non era bastato: lo avevo perso.

Rimasi tutto il giorno aggrappata al water, senza riuscire a muovere un muscolo, senza nemmeno rispondere al telefono, l'ufficio, Francesco, Veronica: tutto mi ruotava intorno ed ero insensibile. Cancellare tutto quel dolore era impossibile, non c'era nulla che potessi fare, non potevo richiamarlo e non sapevo che fare, non potevo prendermela con nessuno, non potevo sfogarmi, piangere ancora o muovermi, non potevo pensare, non riuscivo quasi a respirare, mentre intorno a me il sole lasciava lo spazio al crepuscolo, fino al buio di una notte che sembrava inghiottire tutto, persino le stelle e la luna.

La sera era ormai alta e non ero ancora riuscita a muovermi da quella posizione: non mi ero cambiata e non avevo mangiato nulla.

Il campanello prese a suonare e, solo dopo una vita intera, capii che chi lo stava suonando non era intenzionato a lasciarmi in pace.

Mi alzai a fatica, con le ossa doloranti e mi trascinai verso la porta d'ingresso, mentre il resto della casa sembrava di plastica, inanimato, al punto che facevo fatica a riconoscerlo come casa mia.

-Chi è? - chiesi e la mia voce risuonò metallica e acquosa.

-Scendi – appoggiai la fronte contro la porta chiusa e chiusi gli occhi.

-Francesco, vai via – dissi sconsolata, stanca e senza voglia di lottare ancora.

-No, non me ne vado. Scendi, adesso. Lo sai che suonerò per tutta la vita a questo campanello del cazzo se non scendi.

Allargai le braccia e riagganciai il citofono, presi le chiavi di casa e, senza nemmeno darmi un'occhiata allo specchio, uscii.

Mi aspettava fuori dal portone, appoggiato alla propria macchina che aveva parcheggiato sotto ad un lampione.
Mi guardava come se fossi un fantasma, come se facesse fatica a riconoscermi, come se la donna meravigliosa ed affascinante che era pronto a sposare la sera precedente avesse ceduto il passo ad una malata terminale.

Indubbiamente dovevo essere spaventosa.

Indubbiamente ai suoi occhi apparivo molto meno affascinante di quanto fossi stata la sera precedente. Indubbiamente non mi interessava affatto: pensasse quello che voleva, ormai non contava più.

Ora mi doveva solo dire quello che doveva dirmi, poi se ne sarebbe andato e non lo avrei rivisto mai più e sarei potuta ritornare al mio vuoto.

-Stai bene? - mi chiese venendomi incontro con aria preoccupata.

-No che non sto bene – risposi passandomi una mano tra i capelli. Fece per abbracciarmi, ma bastò una mia occhiata per tenerlo a distanza.

-Perché ieri sei scappata così? Ti ho cercata tutto il giorno. Ho dovuto chiamare il tuo ufficio e farmi dire con una scusa dove abitavi – scossi la testa, maledicendo la receptionist ingenua e credulona.

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