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Cogliendo l'occasione al volo in un momento di silenzio durante il quale guidava con lo sguardo concentrato sulla strada, presi fiato e dissi:

-Ti devo dire una cosa – cercai i suoi occhi, ma era troppo concentrato sulla guida.

-Spara – disse con tranquillità.

-Sabato sera sono uscita con un mio collega – si mosse a disagio sul sedile, ma ancora non mi guardò e il suo disagio era il mio, perché facevo ancora fatica a parlare di quella sera da dimenticare – Andrea... Si chiama Andrea. Lo conosco da anni, mi ha chiesto di uscire e ho detto di sì.

-Perché ti senti in dovere di dirmi una cosa del genere? – chiese senza alcuna intonazione particolare nella voce.

-Dovevo dirtelo. – risposi senza tanti giri di parole, credendo che quello bastasse a farmi capire, ma era ovvio che così non fosse, osservando la sua reazione: mi morsi un labbro e cercai il suo sguardo. D'improvviso mi sembrò ancora più stanco: aveva grosse occhiaie nere intorno agli occhi e l'espressione sbattuta di chi ha preteso troppo dal proprio fisico.

Ma aveva dormito?

Si era riposato per qualche ora, oppure era corso subito da me, senza chiudere occhio?

Quel pensiero fece mancare un battito al mio cuore.

Avevamo fatto sì e no qualche chilometro, non di più.

Fermò la macchina frenando bruscamente, accostando sul ciglio della strada deserta, senza mettere la freccia.

Fuori tirava vento e grosse nuvole minacciose oscuravano la notte.

Aprì la portiera e scese.

Rimasi al mio posto senza capire: ma cosa stava facendo, se ne stava andando?

Mi stava lasciando lì come una scema?

E non avevo nemmeno finito di parlare...

Rimasi interdetta sul mio sedile per qualche secondo, poi scesi anche io, rincorrendolo.

Lo presi per un braccio e, con notevole sforzo considerati i miei tacchi e la sua lunga falcata, lo obbligai a voltarsi, il mio vestito svolazzava così come i miei capelli sciolti, il vento forte soffiava via la polvere e le cartacce intorno a noi, come se, da un minuto all'altro, dovesse scoppiare il peggiore dei temporali:

-Ma dove scappi? - chiesi tenendomi abbassato l'orlo della gonna.

-Guarda non ho molta voglia di sentire quello che mi devi dire. Fammi capire: perché mi racconti queste cose? – ripeté scuotendo la testa. – Hai ascoltato anche solo mezza parola di tutto quello che ti ho detto in questi giorni? Di tutto quello che ti ho detto da quanto ti ho conosciuta? E che cosa significavano tutti i discorsi di ieri sera? Tu mi piaci, sei speciale – scimmiottò il mio tono di voce, lanciandomi uno sguardo duro, d'accusa - ma perché mi fai questo? Solo perché sei più grande, pensi di poter giocare con me, come se fossi un perfetto idiota? Non ti capisco proprio!

-Leo ... - cercai di dire, ma mi interruppe subito, scuotendo ancora la testa e strattonando il braccio per liberarsi dalla mia stretta.

-No! Leo niente. Sono quattro giorni che aspetto di rivederti: conto ogni stupido minuto che mi separa da te e non faccio altro che pensarti, ti chiamo mille volte al giorno e quando non ti chiamo mi censuro dal farlo e guarda che è davvero difficile, perché vorrei sentirti ogni secondo, solo che so che sei sempre impegnata e non voglio disturbarti, non voglio starti addosso, so anche che tieni alla tua indipendenza, so che sei una donna forte, che non hai voglia di sentirti il fiato sul collo, in più tutti i tuoi dubbi, quindi mi sono imposto di starti lontano, di provare ... almeno ... a farlo. Ho passato notti in bianco, a girarmi nel letto, come un pazzo, senza riuscire a chiudere occhio, sperando che mi chiamassi almeno una volta, perché anche solo sentire la tua voce mi avrebbe fatto sentire meglio, però non mi hai mai chiamato. Ma, nemmeno una volta, anche se ci tenevo tantissimo – mi ritrassi per qualche centimetro: aveva ragione, non lo avevo mai chiamato.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now