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Passarono qualcosa come quindici, forse venti giorni.

In quelle due settimane ci vedemmo quasi ogni sera.

Scivolavo come una ladra fuori dall'ufficio accompagnata dal buio della precoce notte alle porte della primavera e, ogni volta, lui era già lì sotto ad attendermi, senza farmi aspettare neanche un minuto, dentro alla sua macchina sportiva, ma non troppo appariscente, nascosto sotto strati e strati di lana, cappelli, occhiali scuri e vari travestimenti fantasiosi che avevano sempre la capacità di farmi ridere a crepapelle e facendomi sentire come se stessi uscendo con l'ispettore Closeau.
Altre volte ci incontravamo in pub poco frequentati, fuori dal centro.

O in ristorantini di periferia.

Altre volte lo raggiungevo in enoteche polverose e piene di fumo vagamente illegale, con musica jazz in sottofondo, sorseggiando vini pregiati e mangiando porcherie.

In quei giorni ingrassai quasi cinque chili.

Ci incontravamo di nascosto, come amanti, come se dovessimo nascondere qualcosa, come se dovessimo celare al mondo quello che, piano piano, tra chiacchiere e confidenze, stava nascendo tra di noi. Che non era amore, non era sesso, non era attrazione e nemmeno io sapevo cosa fosse.

Non avevo idea di quale relazione si stesse instaurando tra di noi, ma ero certa che non volevo finisse, per niente al mondo. Era un sentimento basato sul rispetto, le risate, l'essere inaffidabili ed inafferrabili, era qualcosa in bilico tra l'amicizia e l'amore di una vita intera, qualcosa che mi rubava dal resto del mondo, che poteva cancellare le paranoie, che lasciava solo me, solo lui, solo il profumo della nostra pelle quando eravamo insieme.

Bastava avere la certezza di vederlo, di passare tempo con lui, bastava la certezza che sarebbe stato lì, fuori dal mio ufficio, ad aspettarmi o, che, in qualche modo, mi avrebbe aspettato da qualche parte.

Avrei potuto continuare quella recita anche per sempre.

In parchi deserti, immersi nel buio, a notte fonda, rischiarati solo dalla flebile luce di un lampione, col freddo nelle ossa e le guance rosse come peperoni.

Su panchine gelide tra viali sferzati da macchine in corsa, in gara, in cerca di qualcosa che, con ogni probabilità, a noi nemmeno interessava.

Parlammo un sacco.

E non gli parlavo come si parla ad una persona molto più piccola, ma con sincerità, trattandolo da adulto, tanto che, certe volte, dimenticavo perfino avesse solo diciannove anni, senza dimenticarmi che io ne avevo trentacinque.

Ridemmo come ragazzini inesperti al primo appuntamento, a volte imbarazzati, altre volte complici di marachelle e buffonate, ancora più spesso a parlare l'uno dell'altra, confrontando idee, opinioni, esperienze.

E scoprii che soffriva di vertigini, che amava cucinare, che era testardo e un po' timido, anche se non sembrava, che era dolce e sensibile, non si vergognava di mostrare le proprie debolezze, anche le più infantili, spesso si celava dietro ad una maschera di arroganza e sicurezza, mentre, dentro, tremava. Scoprii che ogni suo gesto aveva un senso.

In quelle poche settimane, arrivò a conoscermi molto bene, ad interpretare i miei sorrisi, i miei silenzi, ad assecondare i miei momenti di solitudine senza voler indagare troppo a fondo, rispettando i miei spazi, anche quando non mi capiva per niente, anche quando non mi capivo nemmeno io.

Ed io scoprii cosa voleva dire stargli accanto, sentire la sua mancanza, sbagliare e capirlo, conoscerlo, esplorare il suo mondo bellissimo, farsi travolgere da quel ragazzo così atipico, così diverso da tutti, così diverso da sentirlo vicinissimo a me, così diverso da pensare fosse unico, che al mondo non ci fosse nessuno come lui e sentirsi felici solo a vederlo, sentire male al cuore quando eravamo lontani.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now