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E così passarono quei giorni freddi e tiepidi, col sole che cercava di vincere la propria battaglia sull'inverno, mentre cercavo di convincermi che Leonardo fosse solo un amico, un compagno di uscite, di risate, di bevute, una persona senza la quale, anche fosse scomparsa il giorno successivo, avrei potuto vivere benissimo.

Mentre il mio cuore raccontava un'altra cosa.

Aveva trovato le parole giuste per farmi sentire a casa, per entrare nel mio mondo, per farmi capire che non ero sola, non ero persa, non tutto era destinato a bruciare. O forse solo io rimanevo sul tetto del mondo, quando era lontano, mentre tutti i sentimenti del mondo si cancellavano, perché una sua sola parola poteva ammansire il vento che mi soffiava dentro al cuore.

Forse, solo lui aveva trovato le corde giuste per entrare nella mia vita, per scoprire la parte più vera di me. Quella sintonia era irripetibile, era magica, era qualcosa di cui si poteva anche vivere, sognare, nutrire. Dovevo ammetterlo, almeno a me stessa.

Lo guardai, quell'ultima sera, sempre sulla soglia di casa, al riparo da occhi nemici, nell'androne del palazzo dove vivevo.

Guardai il suo viso adorato, i suoi occhi scuri come scura era l'idea che avevo del nostro futuro, guardai la sua bocca carnosa e dolce, il naso dritto, la pelle senza difetti, le guance rosse per il vento freddo che gli scompigliava leggermente i capelli, un poco schiariti dal sole di quelle tiepide giornate primaverili. Lo guardai per un tempo che mi sembrò infinito, eppure non potevo fare a meno di guardarlo, di perdermi in quel momento, di dimenticare tutto, il silenzio, le parole, i sorrisi, le certezze: tutto si cancellava e, forse, era anche giusto così.

Ricambiò il mio sguardo con un mezzo sorriso, perché entrambi sapevamo ciò che davvero volevamo, entrambi sapevamo che, quella sera, non potevamo allontanarci e voltarci le spalle come se niente fosse. Non potevamo fare finta di niente.

Io non potevo fingere, non ce la facevo più: quel gioco perverso in cui mi ero infilata stava diventando troppo complicato da tenere sotto controllo e mi si ritorceva contro come una partita di poker condotta male. E ora stavo sul lastrico, ora avevo ipotecato tutto, tutto ciò che avevo.

Appoggiai la mia mano sul suo petto, come per tenerlo a distanza, senza smettere di guardarlo, senza respirare, senza pensare a quello che poteva succedere.

Ok, sapevo che con lui stavo bene.

Sapevo che era dolce, sensibile, che avevamo un sacco di cose in comune. Che era intelligente e arguto e molto più maturo dei suoi diciannove anni.

Santo cielo, diciannove anni...

Sapevo che al mondo non c'era persona che ritenessi più vicina a conquistare il mio cuore di lui, che poteva far scomparire tutto il resto, rendere quello che rimaneva della mia vita una sciocca barzelletta, una fiaba scontata dal finale amaro. Che poteva prendermi e farmi credere tutto ciò che voleva.

Solo lui poteva cambiare tutto.

Lui che era arrivato di soppiatto e aveva stravolto tutta la mia vita, aveva acceso la luce sui miei giorni solitari, aveva dato una spinta all'evolversi delle cose.

Lui che mi aveva capito, più di tutti, forse nessuno mi aveva capito così a fondo, aveva compreso la mia complessità, che aveva intuito quale fosse il mio modo di vivere, che non ero così forte come fingevo di essere, ma avevo paure, fragilità, debolezze, ero una persona diversa, difficile, contorta, indomabile, complicata, probabilmente disturbata, una persona che non ammetteva compromessi, che o prendeva tutto e subito, oppure non se ne faceva niente. Una donna che indossava una maschera da tigre, ma che, in fondo, era vulnerabile di fronte al mondo, aveva paura di tutto, paura di innamorarsi, paura di essere ferita, paura di non essere in grado, all'altezza, paura, di vivere le cose per quelle che erano.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now