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Dentro all'ascensore dell'albergo, molto più tardi, mi osservai nello specchio: avevo di fronte una donna stanca, sudata, stravolta, i capelli erano, come al solito, un disastro, gli occhiali da sole non nascondevano il mio viso provato da quella giornata complicata, il vestito era stropicciato e non avevo nemmeno i miei tacchi a difendermi: indossavo, infatti, un paio di ciabattine.

Avevo lottato così tanto per sentirmi tanto inadeguata, davanti a quella porta chiusa, davanti al mio mondo, alla mia vita, al mio vero amore?

Ero uscita sconfitta da quella giornata, ero stata decisamente battuta su tutti i fronti e ora dovevo per forza leccarmi le ferite ancora sanguinanti.

Armeggiai a lungo con la serratura della nostra camera e quando, finalmente riuscii ad aprire, trovai, di fronte a me, Leonardo, seduto su una poltrona e leggermente illuminato dalla luce del sole pomeridiano, immerso nella lettura di un libro, il mio.

Quanto era bello?

E io? Quanto lo amavo?

Mi appoggiai alla porta chiusa e lo guardai con un sorriso dolce dipinto all'improvviso sulle labbra, perché aveva un potere su di me: per quanto la giornata fosse stata triste, disastrosa, complicata ed affannata, riusciva sempre a regalarmi un sorriso, a farmi sentire bene, in pace col mondo, malgrado tutto. Avevo aspettato tutto il giorno per essere lì dov'ero ora: di fronte a lui, bello come una mattina di sole a primavera.

Indossava un paio di jeans e una semplice maglietta bianca, nient'altro: i ricci castani scarmigliati con le ciocche leggermente più chiare per il sole preso in quegli ultimi giorni, lasciati liberi sulle spalle, la bocca chiusa, piegata in una smorfia concentrata, con quelle labbra da baciare, gli occhi fissi sul libro, le braccia forti, la fronte alta, le orecchie perfette, la curva delicata e leggermente a punta del naso ... presi nota di tutto, di ogni minimo dettaglio del suo viso adorato, come se dovessi disegnarlo, come se non dovessi rivederlo mai più e quell'ultimo sguardo attento fosse, per me, l'ultima immagine, prima del distacco definitivo.

Poi, come all'improvviso, alzò di scatto la testa, rendendosi conto del mio arrivo, sorpreso perché, forse, troppo distratto dalla lettura.

Ma, d'altronde, era così: quando si concentrava su qualcosa, non si faceva distrarre da quello che gli succedeva intorno.

E anche io ero così: ora che lo osservavo, non riuscivo a togliergli gli occhi da addosso, era impossibile, il suo amore era indelebile, non potevo fare a meno di credere a lui, di pensare che fosse la persona più giusta per me.

-Sei qui – disse semplicemente.

-Certo che sono qui. - risposi deglutendo, scoprendo che la mia gola era secca come se non avessi bevuto per anni.

-Per tutto il pomeriggio ho pensato che tu ... che tu ... non saresti tornata affatto. - abbassò gli occhi, un po' titubante, come se fosse in imbarazzo.

Quell'imbarazzo impacciato e timido mi commosse, facendomi innamorare di lui ancora di più, se mai fosse stato possibile.

-Lo sai che non avrei altro posto dove andare – dissi a mezza voce, accucciandomi ai suoi piedi, lasciò cadere il libro per terra e passò una mano tra i miei capelli, chinandosi per baciarmi la fronte.

-Tutto bene? - mi chiese all'improvviso.

-No, tutto male. - ammisi chiudendo gli occhi e appoggiando la fronte sulle sue ginocchia, inspirai a fondo cullandomi nella luce e nel silenzio di quella stanza d'albergo - Ho sbagliato ad andare, è stato un grosso, grosso errore. È stato un pomeriggio da dimenticare, non c'è niente, di oggi, che conserverei nella testa o nei miei ricordi. Ho sbagliato a credere che ci fosse qualcosa, ad aspettarmi, là. Per me non c'è proprio niente.

TrentacinqueWhere stories live. Discover now